Quattro chiacchiere con… Hugh Cornwell

hugh cornwell
foto BERTRAND FEVRE/PRESS

L’ex frontman degli Stranglers ha le idee chiare su come sopravvivere alla prigione e restare lucido, e crede fermamente nel potere del pedale e nell’arte della composizione.

Hugh Cornwell non è mai stato come le altre rockstar. Il cantante/chitarrista famoso per essere stato il frontman degli Stranglers si era già laureato in biochimica e stava facendo un dottorato in Svezia quando formò il suo primo gruppo. Quest’anima sensibile ha scritto libri e trascorso tempo in prigione. È il fascinoso gentiluomo che cantava Always The Sun indossando un cappotto lungo e scuro che sembrava appartenere a Harold Steptoe. Un tipico caso del “quel che vedi non è ciò che avrai”. E il suo nuovo disco MONSTER è lo stesso. Una raccolta meravigliosamente contemporanea, frutto della stessa attitudine dei suoi primi lavori. Ed esce con un bonus disc contenente versioni acustiche di svariate hit degli Stranglers. A 69 anni, Cornwell resta un artista affascinante.

È proprio cambiata la cultura che sta dietro al pubblicare dischi…

Be’, il fare dischi non è poi cambiato granché. Devi sempre andare in qualche posto, farti venire in mente le canzoni e registrarle come si deve. Ma è vero che Cd e vinili sono diventati oggetti da collezione.

E questo cambiamento influenza il modo in cui pensi a loro mentre li realizzi? Tipo l’includere un altro disco con dieci brani, una specie di greatest hits acustico del repertorio più conosciuto degli Stranglers?

Pensa: faccio le cover delle mie stesse canzoni! La Sony ha avuto quest’idea per incuriosire qualcuno dei vecchi fan degli Stranglers. E poi, negli ultimi dieci anni più o meno ogni due ho sempre fatto un tour acustico, per cui il vecchio catalogo lo conosco bene, e continuo a trovare brani che rispondono bene ad arrangiamenti acustici. Resto sempre sorpreso. E quelli più improbabili alla fine sono quelli che suonano meglio.

Per i vecchi artisti, di solito è normale scrivere pezzi che rispecchino le glorie passate. Tu invece come fai a restare sempre nuovo?

Faccio finta! [ride] Vedi, ogni cinque anni circa scrivo un sacco di canzoni, e poi faccio finta che siano attualissime, anche se le pubblico oggi. Ho sempre scritto di pancia. E poi ho imparato parecchio lavorando con produttori sempre diversi nel corso degli anni. Con gli Stranglers non ascoltavo. Facevamo quasi tutto da soli. Ma quando li ho lasciati, da solo in studio mi sono sentito perso, e così ho lavorato con Laurie Latham su due dischi, e da lei ho imparato molto. Poi ne ho fatto uno con Tony Visconti, e dopo ancora uno con Liam Watson. L’ultimo invece l’ho inciso con Steve Albini. Da tutti loro ho appreso tantissimo. Quindi arrivati a questo [nuovo disco] avevo dei demo fatti a regola d’arte, con un sound talmente buono che potevo finire il lavoro da solo. E forse questo ha mantenuto quella scintilla di spontaneità. Ci abbiamo pensato molto… e alla fine abbiamo deciso di non pensarci molto, se capisci cosa intendo.

Gli Stranglers sono sempre stati provocatori – avete rapito dei giornalisti musicali, fatto a botte con i Clash, spaventavate a morte la gente. Eravate sinceri, o era solo una scena per ‘marchiare il territorio’?

Probabilmente tutte e due le cose. La necessità di farsi notare andava a nozze con la nostra indole da provocatori. La percezione ha giocato un grosso fattore. Come ti percepisce la gente determina poi come ti comporti. È lo stesso in qualsiasi settore. C’è un detto: se non urli, non otterrai ciò che vuoi. Ma non mostrare mai di aver paura [ride].

Nel 1980 sei stato condannato a cinque settimane di carcere per possesso di droga. Come si coniuga questo con il non mostrare di avere paura?

Sì, certo. Be’, dovevi stare molto attento. E io non ero preparato. Ma volevo rimanere lì il meno possibile, per cui ho seguito le regole e sono uscito. Ogni tanto ho dovuto pensare a cosa dire o fare a delle persone che stavano lì. Ho fatto le mie scelte, e sono uscito relativamente illeso. Ad esempio: c’erano dei tizi con cui più o meno mi salutavo, e a un certo punto mi dissero che avevano della canapa. Volevo fare un tiro? Il posto era pieno di svitati. Iniziai a seguirli su per le scale, per andare al piano superiore da soli e poi pensai: “Ma è ridicolo. Che sto facendo?”. Dissi che avevo cambiato idea, e me ne andai. C’è una bella differenza tra essere coraggiosi e stupidi.

Oltre all’immagine da duri, gli Stranglers emanavano anche un’aura intellettuale. Ad esempio, in No More Heroes troviamo citazioni di Leon Trotsky, Sancho Panza e ‘all the Shakespeares’, tutto in un unico brano.

Quando scrivo, cerco di farlo partendo da più di un unico punto di vista. Per cui, una canzone non deve necessariamente parlare solo di un’unica cosa.

Golden Brown è un ottimo esempio. È chiaramente dedicata all’eroina, ma è anche bella, eterea.

Sì. Un caso tipico. Il punto è che io scrivo testi che parlano di me, ma che non sono necessariamente chiari a chi le ascolta o li legge. Così è un esercizio catartico. Scrivo dei testi che solo io capisco fino in fondo. Scrivere dei testi che si possono leggere a due o tre livelli serve a più di uno scopo. Golden Brown era perfetta. Stavo con una ragazza che aveva una meravigliosa pelle dorata, e così scrivendo il testo funzionava. Personalmente aveva senso. Ma potevi interpretarla benissimo anche come se parlasse dell’eroina.

Vai sempre in bicicletta tutte le mattine? Ho letto che fai otto miglia ogni giorno.

A Londra no. Troppo pericoloso. Ma quando non sto a Londra, sì. Se vuoi continuare a vivere e goderti la vita, devi mantenerti in forma. E l’unico modo per farlo è esercitare tutte le parti che vuoi continuare a usare, e stare attento a cosa mangi. Sono cose importanti. Ricordo di aver chiesto a Clint Eastwood perché corresse dieci miglia tutte le mattine. Mi disse: “Perché voglio bere un litro di vino rosso tutte le sere”.

L’intervista completa, a cura di Mick Wall, è su Classic Rock n.72, disponibile qui.

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