Daniela Pes, una lingua antica per una musica nuova

daniela pes
foto Enrico Deregibus

Daniela Pes ha musicato le poesie di Don Gavino Pes, mescolando il suono di una lingua antica a quello moderno fatto di riff elettrici e sequenze elettroniche.

Cesare Pavese scriveva che usare il dialetto con fini letterari equivaleva a fare storia. Così è riconosciuto il valore dell’opera di Don Gavino Pes, prete sardo del Settecento che ha dato dignità poetica al gallurese. Daniela Pes ha aumentato il fascino di quelle poesie mettendole in musica e vincendo il Premio Parodi 2017 e il Premio dei Premi 2018.

Hai vinto il Premio dei Premi come rappresentante del Premio Parodi con un progetto in gallurese. Qual è stato il tuo percorso?

Il Parodi è stata la prima tappa di questo progetto. Ho studiato jazz e ho sempre cantato in inglese, non ho mai scritto né cantato in italiano perché mi sentivo nuda, ed è strano perché cantando nel mio dialetto paradossalmente lo sono di più. Ho utilizzato delle poesie per scrivere i brani, talvolta mantenendone la forma originale, talvolta dovendole riadattare. Le poesie sono di un prete del Settecento del mio paese; è una lingua antica, ma molto simile a quella che si parla oggi.

Dall’inglese al dialetto senza passare dall’italiano. Che cambiamento!

Il gallurese ha una musicalità aperta ed esclusiva. Vorrei che del mio disco interessasse la musica, e una lingua così remota può essere una chiave per farlo ascoltare. Mi rende più libera rispetto a un disco in italiano, almeno per ora.

Come si musica una poesia?

La poesia, avendo di per sé già una sua musicalità, mi ha aiutata. Per Ca milla dia dì ho trovato la melodia leggendo il testo, e non l’ho più cambiata; per altre canzoni ho cercato versi che si adattassero alle linee melodiche che mi venivano in mente. Ho lavorato sul suono, cercando di rileggere la lingua in una chiave personale.

La poesia ha già una sua musica, diceva Montale. Ma allora, come si canta una poesia?

La lingua gallurese a volte suona bene, altre volte no; ho dovuto fare diversi tentativi, magari cambiando la metrica e lavorando sul timbro. Ho sempre cantato considerando la voce come uno strumento: mi piace che ci si concentri sul suono di una voce, e non solo su quello che riesce a comunicare attraverso un testo. È un lavoro che mi ha messa in difficoltà, ho dovuto sbatterci la testa, sono curiosa della risposta che avrà.

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Don Gavino Pes ha scritto poesie lunghe ma anche poesie molto brevi. Ti è capitato di dover unire alcuni testi?

C’è stata la tentazione di fare un mash up fra poesie [sorride, ndr], ma ho sempre evitato per non svilire il significato e l’integrità di ognuna. Ho cercato di lavorare più sul suono e sulla divisione ritmica delle parole per aggirare gli ostacoli.

In italiano,il titolo Ca milla dia dì significa “chi me lo avrebbe dovuto dire”. Di cosa parla la canzone?

Di tradimento. Non è chiaro a chi si stia rivolgendo il poeta, può rivolgersi a un amico come a se stesso, e dice “ma chi me lo avrebbe dovuto dire che la persona che ho amato mi ha tradito in modo così meschino?”.

Ciò che rende fascinoso il brano è l’unione della chitarra classica all’elettronica. Il contrasto dà uniformità al pezzo, e la lingua è il trait d’union.

Partecipando a un premio di world music, avevamo pensato di costruire Ca milla dia dì su due elementi riconducibili al folk: la lingua e la chitarra classica, cercando di farli convivere bene con la parte elettronica. Attualmente, gli arrangiamenti dei brani li faccio insieme ai miei musicisti: quello che mi è stato più accanto dall’inizio del progetto è il chitarrista Andrea Pica, che riesce sempre a individuare riff ideali per caratterizzare i brani.

L’intervista completa, a cura di Daniele Sidonio, è su Vinile n. 17, disponibile qui.

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