Rocket Man – I dischi di Elton John degli anni 70: Blue Moves

È giunta l’ora di rendere omaggio a Elton John e ripercorrere i suoi fantastici anni 70.

Un estratto dell’articolo di  Ermanno Labianca pubblicato su Classic Rock 79, in edicola e online!

Blue Moves
Rocket Records, 1976

Se gli album doppi sono un argomento forte nella storia della musica rock in vinile e se gli anni Settanta sono quelli che hanno contribuito a lanciarne la leggenda, è indubbio che Elton John verrà ricordato per GOODBYE YELLOW BRICK ROAD e non per BLUE MOVES. Va sottolineato come, nel caso di BLUE MOVES, non abbiano aiutato il fatto che solo tre anni prima Elton John avesse pubblicato il suo masterpiece su quattro facciate (GYBR, appunto) e che appena tre mesi prima il mercato avesse accolto con tutti gli onori del caso il brillantissimo disco di Stevie Wonder che includeva Isn’t She Lovely, canzone capace di smuovere radio e classifiche in tutto il mondo.

L’unico hit single prodotto da questo doppio, dopo tanti successi mietuti da Elton John in appena sette anni e 11 album, fu l’eccellente ballata Sorry Seems To Be The Hardest Word, carezzevole ma non esplosiva al punto giusto da un trainare con forza un disco introspettivo come questo, curiosamente aperto da uno strumentale che sembra mescolare rock e opera (Your Starter For) e concluso dalla frizzante e frivola Bite You Lip (Get Up And Dance), un tentativo nemmeno troppo sbiadito di recuperare la vena di Saturday Night’s Allright For Fighting.

È l’avvio a frenare il tutto, perché detto dello strumentale introduttivo, fatica anche la bella Tonight, gravata da un’intro ampollosa, tra corni francesi e archi che indugiano troppo prima che al minuto 3 la voce si liberi in una melodia degna delle cose migliori prodotte fino a quel momento dal talentuoso inglese. Solo dopo la pasticciata One Horse Town il disco trova una semplicità espressiva, un passo più corto e immediato. Lo fa con Chameleon, un dialogo affettuoso con un amico lontano che ripropone le atmosfere dei più riusciti lavori d’inizio decennio, e con Boogie Pilgrim, interessante mescola tra bianco e nero non nuova nelle produzioni di questo artista.

Se Cage The Songbird (uno dei quattro titoli omessi dalla prima versione uscita in Cd) galleggia con qualità tra i Beatles e la West Coast (e non poteva essere altrimenti vista la presenza di David Crosby e Graham Nash), un altro episodio di pari compiutezza, un Philly Soul di piacevole fragranza, è If There’s A God In Heaven (What He’s Waiting For?), dove lo stile già riconosciuto a Elton John quando si avventura su certi terreni si sovrappone a quello di Daryl Hall & John Oates, che quel genere a metà anni Settanta lo padroneggiavano più abitualmente. Tra passi falsi (Crazy Water, dove batte quel cuo-re Disco che più avanti farà danni in questa discografia) e riempitivi, si fa avanti, nel riascoltarlo a oltre quarant’anni dalla sua uscita, la sensazione che questo disco avrebbe dovuto beneficiare di un migliore edit e che qualche rinuncia lo avrebbe fatto brillare maggiormente. Idol, una gemma, testimonia da quali solchi e ascolti nasca quel George Michael che negli anni Novanta, oltre a presentare alle nuove generazioni Don’t Let The Sun Go Down On Me, si farà imbattibilecrooner.

 

 

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