Steve Jones: la vita dopo i SEX PISTOLS

Foto via: Teamrock.com
L’ex Sex Pistols ha trovato la felicità al sole dorato della California. Ma non illudetevi: anche se ormai fa meditazione, il rock’n’roll gli pulsa ancora nelle vene.

Residente a Los Angeles da trentacinque anni, Steve Jones ha raccontato la sua storia nell’autobiografia Lonely Boy. Oggi pratica la meditazione e fa da testimonial al programma in 12 passi per uscire dalla dipendenza dall’alcol.

A differenza di altre biografie rock, non hai addolcito nulla.
"La vita non è mai sempre tutta rose e fiori e non lo sarà mai. Non so perché la gente debba sempre raffigurarla come se ogni volta ci sia il lieto fine. La vita è una stronza puttana, dall’inizio alla fine."

Hai descritto la dinamica interna ai Sex Pistols come una lotta. Pensi che il fatto che non vi potevate soffrire vi abbia reso così efficaci?
"Credo di sì. Penso che sia così per un sacco di gruppi. Ci deve essere sempre una qualche strana dinamica perché la cosa funzioni. Hai citato l’apparizione a Today come lo spartiacque nella storia dei Pistols."

Ti sei mai pentito di tutta quella faccenda?
"Sinceramente, non saprei che dire. Fu una di quelle cose che accaddero nel momento più giusto. Forse, in fin dei conti, le cose dovevano andare precisamente così. Sarebbe stato anche carino andare avanti così come avevamo fatto fino a quel momento, ma direi che le cose non si muovevano abbastanza rapidamente.  Iniziavamo a essere conosciuti grazie al «New Musical Express» e la gente iniziava a venire ai concerti vestita da punk. Ma la cosa con Grundy portò tutto a un livello mai visto prima. E per quanto potente, fu anche l’inizio della fine. Non credo che fosse stato programmato. Andandocene dallo studio Tv in auto, McLaren si stava cacando sotto – reagiva così a un sacco di cose – ma poi il giorno dopo quando vide le reazioni della stampa se ne assunse il merito."

Credi che i Pistols avrebbero dovuto durare più a lungo?
"Avremmo potuto andare avanti, e poteva anche essere una cosa buona, ma non credo sarebbe successo. Mentre eravamo negli USA e ci dirigevamo verso sud, cercammo di scrivere un paio di brani, ma non ci stavamo con la testa. Se avessimo provato, forse saremmo riusciti a realizzare un altro disco, ma con Sid nel gruppo le dinamiche erano cambiate."

 

Dopo che vi siete sciolti, il gruppo ti è mai mancato?
"Non molto. Il momento più bello di un gruppo sono i primi tempi, quando nessuno ti conosce. Sei un’unità che fa assieme delle cose, senza che nessuno cerchi di intromettersi. Nel 1996 facemmo una reunion e fu eccitante – alcuni dei concerti furono davvero belli – ma poi i vecchi veleni tornarono a galla. Ci ritrovammo a pensare: “Ma vaffanculo, sei peggio di un dito nel culo!”. Comunque, facemmo bei soldini. In effetti, fu la prima volta che i Pistols guadagnarono qualcosa."

È stato difficile nel tuo libro parlare degli abusi che hai subito dal tuo patrigno?
"Mi sono sentito un po’ strano, ma le cose sono andate così, e ho pensato che fosse importante parlarne. Se la cosa aiutasse altri che hanno subito le stesse cose, ne sarei contento, anche se non è il motivo principale per cui ne ho parlato. Alla resa dei conti, fu una banale storia di confusione sessuale in un ragazzino. Io non sono minimamente gay, ma quando hai dieci anni e il tuo patrigno ti fa una sega, tu non hai la minima idea di cosa stia succedendo. Non riesci a capirlo e non sai cosa fare."

Oltre a furtarelli da adolescente ai danni di tipi come Ronnie Wood e Keith Richards, nel 1973 hai rubato parte dell’equipaggiamento di David Bowie dopo il suo concerto di addio come Ziggy all’Hammersmith Odeon.
"In realtà, non presi nulla di suo. Solo l’amplificatore del bassista, un po’ di microfoni Neumann e un paio di piatti di Woody Woodmansey, tutte cose per cui poi mi sono scusato. Un paio di mesi fa Woody è stato mio ospite in radio con Tony Visconti e gli ho dato duecento dollari per i piatti. Qualche anno fa incontrai Bowie e mi disse che trovava la cosa molto divertente."

Quando ti sei trasferito a LA ti sei ambientato in fretta?
"Sono arrivato qui dopo aver passato un anno a New York. La prima volta che arrivai a LA me ne innamorai, per cui credo che il seme sia stato piantato allora. È stata solo questione di tornarci. Adoro il sole, lo spazio e il modo di vedere la vita molto più positivo che ha la gente. Non mi piace tornare a Londra. Non ho nulla contro gli inglesi, solo che ovunque vada, mi deprimo. Mi riporta alla mente sempre un sacco di strani ricordi. Francamente, se non ci dovessi tornare più non me ne fregherebbe un cazzo."

Come sono i tuoi rapporti con John Lydon?
"Non ci parliamo. Anche se viviamo nella stessa città, mi sembrerebbe molto strano chiamarlo, o essere chiamato da lui. Ci deve essere una ragione estremamente importante perché succeda. Non gli auguro alcun male, ma non voglio avere niente a che fare con lui. È come quando finisce un matrimonio. Non chiami più la tua ex moglie, giusto?"

Essere stato uno dei Pistols ti ha aiutato?
"C’è stato un periodo in cui il punk non era affatto di moda a LA. Nessuno ti cacava. Ora è molto diverso. Sembriamo essere diventati parte della cultura musicale."

Questo articolo appare integralmente nel numero #52 di Classic Rock Italia!

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