Federico Guglielmi parla di Fabrizio De Andrè sul nuovo numero di VINILE

Federico Guglielmi non ha certo bisogno di presentazioni visto che vive la musica con passione ormai da tanti anni, attraversando la storia di tante riviste, radio e realtà artistiche sul territorio… ora che collabora a VINILE abbiamo deciso di porgli alcune domande riguardanti la musica e il suo articolo sul periodo Karim di Fabrizio De  Andrè.


Sopra Federico Guglielmi “immerso” nella copertina dell’album GOODBYE AND HELLO, 1967, del leggendario cantautore Tim Buckley.

 

Visto che scrivi in un giornale come questo presumo che tu sia un amante del vinile… hai sicuramente un impianto hi-fi, come è costituito?
Per un paio di decenni ho dedicato tempo e risorse all’assemblaggio di una valida catena di ascolto, ma da circa venticinque anni ho praticamente smesso di preoccuparmi di “migliorare”, anche se continuo a interessarmi degli sviluppi della tecnica e, per forza di cose, ogni tot anni sono costretto ad acquistare un nuovo lettore CD perché si sa che non durano. L’impianto è costituito da un preamplificatore Onkyo, da un finale sempre Onkyo da 165 watt per canale, da una coppia di casse Strateg e da un piatto Thorens con testina Stanton. Spero sempre che non si rompa mai nulla; anche se non sono un audiofilo maniacale, dover sostituire qualcosa mi metterebbe addosso un po’ di ansia.

Collezioni qualcosa, anche oltre i vinili? Cosa può esprimere il collezionismo? In verità, oltre ai musei, preserva anche la memoria più spicciola, quella delle consuetudini giornaliere…
Mi piace accumulare cose, ma non sono mai stato né sarò mai uno di quei collezionisti secondo me fuori di testa che vogliono avere, per fare un esempio, tutte le edizioni esistenti nel mondo di uno stesso LP, anche se identiche a parte il “made in…”; mi basta possedere un “oggetto” nel quale è contenuta la musica che amo e sono più contento se l’oggetto in questione è in prima stampa della nazione “giusta” a seconda dell’artista o dell’etichetta. Oltre a vinili e CD, accumulo fumetti, riviste di musica, DVD, libri, occasionalmente sciocchezze che mi ispirano. Per un bel po’ mi ero messo a raccogliere gadget di ogni genere legati a Spider Man, ne ho circa settecento… ma quando con l’uscita del primo film è iniziato a saltar fuori di tutto e di più, ho smesso totalmente per evitare spese folli. Quando ero giovane vedevo il collezionismo – sempre nella mia accezione personale, ovviamente – come una necessità per la piena conoscenza di qualcosa. Oggi lo ritengo una sorta di dannazione dalla quale vorrei liberarmi.
Cosa pensi di questa ipotetico rinascimento del vinile?
Che per tanti aficionados dell’ultima ora è solo una moda… molti di quelli che hanno cominciato ad acquistare vinili da poco non hanno nemmeno il giradischi. E penso anche che, grazie ad essa, le case discografiche stiano riuscendo una volta in più a rivendere la stessa roba sulla quale hanno già abbondamente lucrato in passato.
Quali sono gli ultimi vinili che hai preso?
Le ultime cose a entrarmi in casa sono state la ristampa limitata e numerata de “Il tuffatore” di Flavio Giurato, “Forze elastiche” di Fabio Cinti, “Nulla è andato perso” di Gianni Maroccolo, il mini-LP “Secession” dei Tu Fawning, “Smoke Seven 81/82” dei Red Cross, “Deimalati” dei Dalton, il 45 giri “I Don’t Mind” degli Human Race. Poi, non ho ancora ritirato, ma ce l’ho da parte, una copia quasi intonsa di “Volume 1” di Fabrizio De André nella magnifica edizione Bluebell del 1967.
In particolare su questo numero di Vinile hai redatto un interessante articolo su Fabrizio De Andrè, puoi parlarci sia del periodo Karim che hai analizzato, sia di De Andrè più in generale?
Anche se amavo la musica già da bambino, negli anni ’60, De André è stato il primo in assoluto del quale ho comprato un album, proprio del periodo Karim: l’antologia “Tutto Fabrizio De André”, che presi tipo nel 1970, in formato cassetta perché non avevo ancora il giradischi e mio padre non mi lasciava usare la sua fonovaligia. Lo scoprii grazie alla mamma del mio migliore amico, che ne ascoltava sempre i dischi ad alto volume mentre studiavamo o giocavamo, e fu una svolta epocale che mi aprì la mente e mi spinse – a dieci, undici anni: erano altri tempi – ad approfondire cose non proprio da ragazzini come il ’68, Edgar Lee Masters, i vangeli apocrifi, la canzone francese. Probabilmente senza De André la mia vita avrebbe preso una piega diversa e scrivere della fase Karim – la prima che ho conosciuto – è stato un bellissimo viaggio sentimentale nel mio passato di ascoltatore, naturalmente con il senno di poi perché all’epoca non immaginavo certo che De André attingesse in modo così ampio da varie fonti. Per come la vedo io, Fabrizio De André è stato un maestro, abilissimo nell’ispirarsi a quello che già esisteva e a scegliere i colleghi musicisti con i quali collaborare, per dar vita a canzoni che, però, erano comunque “sue”. Amo tutta la sua produzione e trovo ridicoli i revisionismi volti a (cercare di) ridimensionarne la grandezza; che era immensa, anche se spesso “copiava” e si faceva aiutare da altri (dei quali, peraltro, ha sempre riconosciuto i contributi), tanto quanto la sua inconfondibile voce e il suo straordinario carisma.

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