Bruce Springsteen: la strada per la gloria

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Come molti altri adolescenti nei Sixties, Bruce Springsteen era ossessionato dal rock’n’roll. Dopo dieci anni di durissima gavetta, qualcuno indicò in lui il suo futuro.

Il pomeriggio del 18 novembre 1975, Bruce Springsteen stava attraversando in auto la zona ovest di Londra. Mentre sbirciava fuori dal finestrino, il suo umore era cupo e opprimente quanto il cielo grigio che avvolgeva la città: era vittima di un attacco di panico. Quella sera, doveva esibirsi nel suo primo concerto in assoluto al di fuori degli USA. A casa, il suo terzo disco BORN TO RUN, pubblicato tre mesi prima, era stato il suo primo grande successo, e le previsioni dicevano che per la fine dell’anno avrebbe venduto almeno un milione di copie. Ma il pubblico di Springsteen era ancora ristretto alla sua natia East Coast, con sacche in Texas e un lontano avamposto a Phoenix, in Arizona. Nel resto del Paese – e cosa ancora più seria, a se stesso – aveva ancora tutto da dimostrare.

Prima che BORN TO RUN sfondasse, Bruce aveva sopportato sei o sette anni di gavetta durissima, girando in lungo e in largo i bar e i locali della costa del New Jersey. C’erano stati periodi in cui si era ritrovato senza un soldo, sbandato, e i primi due dischi per la Columbia Records erano affondati senza lasciare taccia. Sicuramente la sua forza di volontà aveva contribuito al recente cambio delle sue fortune, ma ancora di più aveva contribuito a creare la sua fama – costruita con le unghie e con i denti, goccia di sudore dopo goccia di sudore – di live performer eccezionale. L’anno prima, l’uomo che aveva coprodotto BORN TO RUN, Jon Landau, all’epoca giornalista musicale di «The Read Paper», un settimanale di Boston, lo aveva aiutato in modo decisivo ad abbattere le porte del mondo musicale. Recensendo un concerto tenuto da Springsteen e dalla sua neonata E Street Band all’Harvard Square Theatre il 9 maggio 1974, Landau aveva scritto: “Ho visto il mio passato rock’n’roll apparirmi davanti agli occhi. E poi ho visto qualcos’altro. Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen”. Il clamore di quella recensione entusiasta non si era più placato. Ovviamente, la Columbia ci era andata a nozze, sfruttando le parole di Landau per annunciare Springsteen come ‘il futuro del rock’n’roll nella campagna promozionale organizzata per lanciare il nuovo disco. Quell’estate, in agosto, ben due tra le maggiori riviste USA, «Time» e «Newsweek», nello stesso momento, lo avevano messo in copertina.

Springsteen però aveva iniziato a sentire come se le aspettative su di lui avessero raggiunto un livello irreale e al di là del suo controllo. Da quando era arrivato a Londra ai primi di novembre, si era sentito sulle spine, era nervoso e la scena che lo aveva accolto quando la sua auto era passata davanti all’Hammersmith Odeon lo aveva ulteriormente messo in ansia. Sul frontale dell’Odeon, a lettere rosse alte mezzo metro circa campeggiava la frase: ‘Finalmente! Londra è pronta ad accogliere Bruce Springsteen’. Quella scritta aveva scosso profondamente il segaligno 25enne annidato nell’auto con un cappellaccio di lana calcato sui capelli scompigliati. Perdipiù, aveva trovato più o meno lo stesso messaggio sui poster che annunciavano la serata e sui volantini poggiati su ciascuno dei 3500 posti dell’Odeon.

Il bacio della morte”, avrebbe commentato in seguito nella sua autobiografia. “Ero terrorizzato e anche incazzato, molto incazzato. Così non funziona. Lo so  come funziona. L’ho fatto e rifatto. Suoni e stai zitto. Il mio lavoro è fare concerti, e questo significa far vedere qualcosa e non parlare di qualcosa!”.
Insomma, Springsteen sbroccò: furioso, percorse le file dell’Odeon, strappando i poster e riducendo i volantini in coriandoli. Fu una catarsi, ma lo lasciò stremato e insicuro. Quando quella sera entrò in scena in un Odeon sold out, nella sua mente si era scatenata una guerra. “Andiamo in scena”, scrisse. “Il pubblico sembra reticente, la sala a disagio. La responsabilità è mia. Per qualche minuto non sono me stesso, ed è una brutta sensazione. Mi accorgo che sto pensando troppo, ci do troppo peso”. “All’epoca, sentii che quella serata era stata così brutta che non ebbi la forza di rivedere il filmato del concerto fino al 2004. Quando lo feci, scoprii che era stata un’ottima esibizione di un gruppo che sfoggiava giubbotti di pelle e vestiti molto disco music, tipici di metà anni 70”. Quella sera, quasi tutti gli altri ebbero un’immagine totalmente diversa di questo magro e spiritato visitatore proveniente da Freehold. E col tempo, lo stesso Springsteen si sarebbe sentito più a suo agio nel personaggio da rockstar mondiale che presto sarebbe diventato. In più, un’esperienza pagata a caro prezzo gli avrebbe dato una presa più forte sulle possenti energie che era in grado di evocare sul palco. Ma per ora, malgrado la strada già percorsa, stava appena iniziando a entrare nel suo ruolo, scuotendosi la polvere dai sandali, e preparandosi al viaggio fino al lontano orizzonte dove lo attendevano la gloria… e forse anche l’immortalità rock.

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