DAVID GILMOUR – 2 LUGLIO 2016 POSTEPAY SOUND ROCK IN ROMA CIRCO MASSIMO RECENSIONE

foto Danilo D’Auria

Succede qualcosa di curioso a Roma quando viene annunciato che un evento rock di altissimo profilo si svolgerà in quella che, definire “location”, significherebbe sminuire scandalosamente l’importanza storica, culturale ed emotiva che detiene il Circo Massimo. Per i romani questo infatti e un monumento-non monumento, un’idea di qualcosa che c’era e oggi non possiamo che immaginare, un luogo mitico eppure così accessibile, al punto che non ci sono cancelli o biglietterie a contenerlo o nasconderlo. Ecco allora che, se una superstar suona al Circo Massimo, l’evento diventa più grande di colui che per una sera farà rivivere il “circo”, portando in quell’arena il carrozzone del rock’n’roll. Oh certo, fra qualche giorno David Gilmour si esibirà a Pompei, dove chiuderà il cerchio con un’altra storia, la sua sua personale, ma per i romani, assistere ad uno spettacolo al Circo Massimo è qualcosa che tocca corde che, se fossi uno che usa paroloni, potrei definire ancestrali. Anzi no, addirittura ataviche.

Il mito, la leggenda dei Pink Floyd è qualcosa che probabilmente sarà impossibile raccontare nuovamente nella sua forma originaria, e allora i suoi protagonisti hanno, forse inconsciamente, deciso di dividere l’eredità in due parti più o meno uguali: da un lato Roger Waters, che tributa se stesso e il suo capolavoro THE WALL, dall’altro Gilmour, che si trova fra le mani il colossale catalogo dei Floyd, arricchito da brani che non ne vogliono assolutamente sapere di essere meri comprimari, ovvero quelli della sua carriera solista come quelli dei “suoi” Pink Floyd. E non è un eresia se vi dico che, sì, oggi abbiamo ascoltato Wish You Were Here come Money o Run Like Hell e tutti sono bravi a farsi venire la pelle d’oca con Us And Them o Time, ma stasera la grandezza unica dei Floyd emerge anche in quelle canzoni di matrice gilmouriana che forse potremmo aver dimenticato, su tutti i brani recuperati magistralmente da THE DIVISION BELL del 1994. High Hopes, che chiude la prima parte del concerto, a livello emozionale è semplicemente MONUMENTALE, tanto che al suo termine, sfumando come se fosse un disco, c’è un momento sospeso, un istante di immenso silenzio, di estasi assoluta. E ancora, un brano di matrice essenzialmente pop come Coming Back To Life (anch’esso da …BELL e sicuramente non la canzone che tutti avranno impressa nella memoria) trova uno stato di grazie ed un trademark quintessenzialmente floydiano, quasi da farne, nelle mani di Gilmour, un nuovo classico.

Ovviamente il repertorio c’è, la scenografia pure, come c’è il celebre big eye che irradia luci e all’interno ha uno schermo ad altissima definizione, ma le mie orecchie sono ammaliate da Gilmour e solo Gilmour, con una voce malleabile e sicura, potente ed oscura, bassa da smuoverti lo stomaco o capace di ipnotizzarti, come se stesse sussurrandoti qualcosa all’orecchio. E c’è la sua chitarra, che non si stanca di riarrangiare il materiale vecchio e nuovo (piacevole e niente affatto fuori luogo una Wish You Were Here principalmente acustica) o si prende ampie divagazioni soliste, allungando i brani e trascinandoli fino al punto in cui i confini diventano liquidi e psichedelici (accade in Money, nella sua Faces Of Stone, che da quasi chanson francese diventa una sarabanda di note, e succede soprattutto nell’apoteosi di Confortably Numb, il cui assolo potrebbe LETTRALMENTE andare avanti tutta la notte!).

Sia chiaro che Gilmour e la sua band non sono qui per proporre cover dei Floyd a chi probabilmente non li ha mai potuti vedere dal vivo. Sono infatti nove i brani tratti dai suoi ultimi due album solisti, canzoni capaci di trovare il loro spazio se affiancate ai classici, come Rattle That Lock, che fin dall’inizio alza il ritmo, o In Any Tongue, che assume un vestito smaccatamente floydiano, probabilmemte il miglior brano del patrimonio solista ad emergere in sede live. Qualcosa non funziona nella jazzy The Girl In The Yellow Dress, che, se da una parte mostra la versatilità dei suoi ottimi musicisti (alle tastiere c’è anche l’ex Allman Brothers Chuck Leavell, già collaboratore degli Stones), dall’altra sembra un inserimento troppo forzato, che stona nella set-list.

Last but not least: raramente in un’arena all’aperto ho potuto sentire un suono così pulito, bilanciato, in grado di esaltare ogni strumento, ogni coro e capace di avvolgere anche a 150 metri dal palco. Roma e il Circo Massimo non potevano avere di meglio. (Francesco Fuzz Pascoletti, foto di Danilo D’Auria)

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