Quattro chiacchiere con… Billy Gibbons

billy gibbons
foto: Antonio Viscido

Un album solista di cover da poco nei negozi, le partecipazioni alla serie tv Bones, ma anche un disco d’inediti per i cinquant’anni degli ZZ Top all’orizzonte: l’arte di non fermarsi un attimo!

La barba di Billy è uno degli elementi più iconici del mondo del rock. Tra la collaborazione con John Fogerty e il tour con i Supersonic Blues Machine di Kenny Aronoff e Fabrizio Grossi, l’infaticabile chitarrista texano ha da poco sfornato il suo secondo disco solista, THE BIG BAD BLUES, una collezione di brani originali e cover dei suoi artisti preferiti, da Muddy Waters a Billy Stillwater, con l’aiuto di un inaspettato Matt Sorum (Guns N’Roses).

Che formula hai usato per questo disco?

Something old, something new, something borrowed, something blue. È un ritorno alle origini del blues, dopo la musica cubana di PERFECTAMUNDO, una sorta di BFG e i giganti del blues ma in chiave moderna e fresca.

Parlando di origini, come è iniziato tutto?

La musica è arrivata in due momenti nella mia vita. La prima volta a cinque anni, quando mia madre ha portato me e mia sorella a vedere Elvis Presley. Poi, sui sette anni, mio padre mi ha portato in uno studio di Houston. Mi ha messo a sedere su una sedia: “Tu stai qui buono e tranquillo, io devo parlare con queste persone”. Ho passato tutto il giorno guardando BB King che registrava!

I primi dischi che hai comprato?

Walk The Line / Get Rhythm di Johnny Cash e un disco di Jimmy Reed, credo Big Boss Man… li sento ancora oggi, li ho consumati. Quando sento qualcuno dire che ‘il vinile sta tornando’, mi si scalda il sangue. Jeez, per me il vinile non se n’è mai andato!

Come è stato incontrare Johnny Cash?

Rick Rubin mi ha fatto una sorpresa, chiedendomi di scrivere una canzone per lui. Il pezzo è I Witnessed A Crime. È stata un’emozione fortissima.

E Jimi Hendrix?

Jimi sul palco era una cosa pazzesca. Nel backstage invece era quasi timido. Una volta abbiamo attaccato dei pennelli con colori fluorescenti alle chitarre, poi abbiamo illuminato tutto con lampade di Wood. La Experience, ma soprattutto i Cream, hanno influito molto sulla nostra scelta di rimanere un trio.

Quanto sei cambiato in cinquant’anni di musica?

Tantissimo e quasi per niente. Per dire la verità, sembra di essere tornati all’inizio, come se avessi percorso un lungo tragitto circolare. Certamente la tecnologia attorno a noi ha fatto passi da gigante, ma il modo di sentire la musica non è cambiato. Credo che tutto stia nel suonare quello che mi piace ascoltare. Sono tornato a fare dischi che si ascoltano una canzone dopo l’altra, con un lato A e un lato B.

Sei sempre molto posato… c’è qualcosa che ti fa incazzare?

Be’… mi fanno incazzare quelli che si vestono in maniera sciatta. Quando compri un vestito, devi fare attenzione ai particolari. In America la gente va in negozio, compra qualcosa e non si prende il tempo di farsela mettere a posto. A me piace come fanno gli italiani, gli spagnoli… certi – pochi – inglesi… mi piace il senso dello stile. Per averlo, ci vuole un piccolo sforzo in più. Io sono molto fortunato, ho un sarto col quale sono praticamente cresciuto, ci conosciamo da quarant’anni; abbiamo la stessa età e lui interpreta alla perfezione il mio stile. Quando hai la fortuna di trovare certi collaboratori, devi tenerteli stretti.

Nella vita sei molto diverso da come ti vediamo sullo schermo. Come nasce il Billy attore?

Oh, quasi per scherzo. In Bones faccio la parte del padre iper-protettivo di Angela, l’attrice Michaela Conlin. Quando ho incontrato il suo vero padre, mi ha detto che avrebbe dovuto essere più come il mio personaggio, perché la ragazzina ne ha combinate tante. Pochi sanno che il nome completo del personaggio è Angela Pearly-Gates Montenegro. Un tributo alla mia chitarra preferita.

Chi è Pearly?

È la mia Les Paul Sunburst del 1959. Per qualche motivo, quella chitarra ha uno dei suoni migliori che si siano mai sentiti. Ha contribuito a creare il particolare sound degli ZZ Top. Ne ho cercata una simile a lungo, ma non esiste. In tour uso delle chitarre che ci vanno molto vicino, ma non sono la stessa cosa. Dopo l’uscita di BLUES BREAKERS WITH ERIC CLAPTON, mi sono messo a cercare una chitarra uguale alla sua. Nel 1968 John Wilson dei Magic Ring mi ha detto che c’era un tizio vicino a Houston che ne aveva una. Era grosso come John Wayne e gli ho dato duecentocinquanta dollari… recentemente, per quella chitarra mi hanno offerto cinque milioni. Quei soldi li avevo ricevuti per la vendita di una Packard del ’39, ma è tutta un’altra storia.

Ce la racconti?

C’era questa bella ragazza che voleva fare l’attrice. Doveva andare fino a Hollywood per un provino e allora le ho dato la mia macchina. Non credevo che sarebbe arrivata oltre El Paso, ma alla fine ce l’ha fatta e ha avuto la parte. Quella macchina era stata miracolata, così l’abbiamo chiamata Pearly Gates. Quando mi ha chiesto se la rivolevo, le ho detto: ‘Col cavolo, vendila pure’. Ed ecco che il cerchio si è chiuso.

Oltre alle macchine e alle chitarre, che altro ti piace?

Mi piace leggere: vi consiglio il surrealismo di Hard Boiled Wonderland di Murakami.

Come festeggerete i cinquant’anni di ZZ Top, nel 2019?

Dobbiamo assolutamente fare un disco d’inediti. Ovviamente con la mia Pearly.

Ma una tua biografia?

Fra pochissimo uscirà un film-documentario su di me. Stay tuned.

L’intervista a cura di Luca Fassina è su Classic Rock n.70, disponibile qui.

foto di Antonio Viscido

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