A Hard Road: l’intervista a John Mayall

Il bluesman e bandleader inglese-ma-espatriato che fece più di chiunque altro per modellare il corso della musica rock negli anni 60

Un breve estratto della storia di copertina di Classic Rock 77 sui 100 migliori album degli anni 60.

Il sole brilla, ma mentre John Mayall parla al telefono dalla sua casa a Los Angeles, qui fa freddo. Il bluesman e bandleader inglese-ma-espatriato che fece più di chiunque altro per modellare il corso della musica rock negli anni 60, oggi ha 85 anni e lavora ancora come un matto. Il proverbio ‘la vita è bella se non rallenti’ potrebbe essere stato coniato pensando a lui. Mentre parla del suo disco del 2018 NOBODY TOLD ME, il suo 67esimo lavoro escluse le antologie, è secco e professionale.

Anche se fortemente appassionato verso la musica che ha rappresentato la sua vita, Mayall è stranamente distaccato nei riguardi di ciò che ha realizzato in passato. Ha abbandonato il marchio Bluesbreakers oltre dieci anni fa (“Quel nome apparteneva al passato. Non serviva più”). E da come la racconta lui, la sua storia degli anni 60 fu solo “lavorare sodo e andare per la propria strada, un passo dopo l’altro”.

“Non ho mai pensato al successo del disco precedente. I confronti con quello che ho fatto prima non mi hanno mai interessato. Non sono un tipo competitivo”. Competitivo o meno, il terzo disco in studio di Jonh Mayall & the Bluesbreakers, A HARD ROAD, pubblicato il 17 febbraio 1967, dimostrò che Beano non era stato un caso, e confermò il predominio di Mayall non solo come bandleader, ma anche come uno degli ultimi visionari del blues. Pur essendo rimasto un po’ all’ombra del Beano, A HARD ROAD è un lavoro di pari importanza storica, dato che non solo introdusse nel rock il genio di Peter Green – sia come chitarrista solista che come cantante e autore – ma pose le basi dei futuri Fleetwood Mac. “Quando Eric se ne andò, probabilmente passammo una settimana o dieci giorni a provare chitarristi”, ricorda Mayall. “Pete fu quello che si propose con maggior forza, sostenendo di essere migliore di chiunque altro. Una volta che lo ascoltai, mi resi conto che aveva ragione”.

Sembra la storia della mia vita: metto assieme un gruppo, e poi se ne vanno tutti

Mayall dovette sostituire anche Hughie Flint, il batterista che era stato con lui fin dagli inizi dei Bluesbreakers nel 1964. “Voleva mollare la musica”, dice Mayall. “Si era stufato di andare su e giù per la M1, era depresso e non voleva più farlo”. Mayall vide Aynsley Dunbar suonare nel gruppo di Alexis Korner e lo invitò nei Bluesbreakers. Dunbar suonò il suo primo concerto con il gruppo senza aver fatto nessuna prova. “Le prove le facevamo sul palco, davanti al pubblico, o magari una cosetta alla svelta prima di entrare in studio a registrare”, ricordò in seguito Dunbar. Le registrazioni di A HARD ROAD durarono solo quattro giorni nell’ottobre del 1966, negli studi della Decca a Londra, con la formazione composta da Mayall, Green, Dunbar e John McVie al basso. Ancora una volta, il produttore fu Mike Vernon, un interno della Decca che era stato fondamentale per portare Mayall nell’etichetta. Green e McVie erano sempre più amici, e la sensazione di un gruppo a sé che cresceva all’interno dei BB si fece evidente quando Dunbar lasciò i Bluesbreaker dopo la pubblicazione di A HARD ROAD, sostituito da Mick Fleetwood

Non sorprende quindi che, meno di un anno dopo queste incisioni, Green, McVie e Fleetwood lasciarono il gruppo e il primo disco omonimo dei Peter Green’s Fleetwood Mac balzò subito in cima alle classifiche UK. Mayall nel frattempo aveva messo assieme un’altra versione dei Bluesbreakers, totalmente rinnovata, con lo sconosciuto Mick Taylor, che in seguito sarebbe entrato nei Rolling Stones. “Sembra la storia della mia vita”, dice Mayall. “Metto assieme un gruppo, e poi se ne vanno tutti”.

L’articolo integrale su Classic Rock 77 che si può acquistare qui.

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