Rocket Man – I dischi di Elton John degli anni 70: Tumbleweed Connection

È giunta l’ora di rendere omaggio a Elton John e ripercorrere i suoi fantastici anni 70.

Un estratto dell’articolo di Federico Guglielmi  pubblicato su Classic Rock 79, in edicola e online!

 

TUMBLEWEED CONNECTION
DJM, 1970

Con il terzo album, uscito nel novembre del 1970, Elton John confermò lo status di mattatore delle classifiche acquisito piuttosto a sorpresa con il precedente Lp omonimo, composto fondamentalmente da demo ben lucidati che nelle intenzioni della DJM avrebbero dovuto essere reinterpretati da cantanti affermati e favorire l’ingaggio da parte di terzi del team compositivo John/Taupin.

Il successo spinse invece a puntare finalmente con convinzione su quel ragazzo che come rockstar sembrava piuttosto improbabile, riunendo l’equipe di pochi mesi prima: Paul Buckmaster a occuparsi (in misura maggiore) degli arrangiamenti, lasciando però al titolare libertà di esprimersi a suo piacere con il piano, e Gus Dudgeon alla produzione, con un’infinità di musicisti vecchi e nuovi ad avvicendarsi nelle session; da segnalare che in Amoreena sono per la prima volta assieme Dee Murray e Nigel Olsson (ambedue ex Spencer Davis Group), che sarebbero stati per vari anni la sezione ritmica della backing band, e che in altre due tracce è presente ai cori Dusty Springfield.

Il risultato? N. 2 in UK, n. 5 negli USA, Top 10 in varie altre nazioni. Se i consensi di ELTON JOHN potevano essere stati frutto di coincidenze fortuite, fu con TUMBLEWEED CONNECTION che l’artista in precedenza conosciuto come Reginald Dwight diede prova di avere tutte le carte in regola per rimanere a lungo in alto.

Un concept sul sound a stelle e strisce

Il disco aveva preso forma nel marzo 1970, ancora ai Trident Studios di Londra: nove brani firmati dall’ormai rodatissima coppia e una cover di Love Song, che l’autrice Lesley Duncan – stella “mancata” negli anni 60 e 70 – aveva pubblicato su singolo nel 1969. Non si trattava, però, di una semplice raccolta di canzoni, ma di una sorta di concept sul sound a stelle e strisce ricalcato sul modello reso immortale dalla Band in MUSIC FROM BIG PINK e THE BAND e ben sintetizzato da una foto di copertina virata seppia che si direbbe al 100% scattata in qualche buco di culo provinciale degli States e che invece ritrae la stazione ferroviaria di Horsted Keynes, nel Sussex.

Se a questo si aggiunge che fino ad allora Elton John non si era mai recato Oltreatlantico, si potrebbe dire che esistevano tutti gli estremi per la débâcle, con tanto di trasporto forzato ai confini della città su una trave e con addosso pece e piume. Al contrario, l’interpretazione a distanza dell’America “del mito” risultò credibile e piacque molto ovunque, sia per quanto riguarda le vicende di guerra e frontiera raccontate in quasi tutti i testi, sia sotto il profilo delle strutture e delle trame strumentali, per lo più ricche e articolate ma in qualche caso all’insegna di sonorità essenziali; nella seconda categoria rientrano la già citata Love Song, “sospesa” come alcuni brani del David Crosby coevo, e l’intensa Talking Old Soldiers, solo piano e voce, mentre la prima annovera gemme dagli spiccati aromi Southern quali la Ballad Of A Well-Known Gun d’apertura e la conclusiva Burn Down The Mission, oltre alle più ritmate Son Of Your Father e Amoreena e alle avvolgenti Country Comfort (incisa quell’anno pure da Rod Stewart) e My Father’s Gun.

Più atipiche la Come Down In Time interpretata anche da Al Kooper, Judy Collins e Sting, tra rurale e orchestrale, e soprattutto la psichedelicheggiante, evocativa Where To Now St. Peter?, che in un certo qual modo “spiega” l’affettuosa dedica di Talking Old Soldiers (“With love to David”) per David Ackles, sfortunato e misconosciuto eroe di culto di quella che oggi chiamiamo Americana.

 

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