Tutti scomparsi non si sa dove, né come, né perché. Autori e interpreti di musiche spesso originali, ma appartenenti alla “zona maledetta del rock”.
Spariti nel nulla da un giorno all’altro, magari dopo una vita passata nella musica. Nessuno ha saputo più niente di loro. Qualcuno li sta ancora cercando. Uomini e donne che, come in tutte le storie, sono usciti una mattina a comprare le sigarette e non sono più tornati. Insomma sparizioni improvvise, morti che sfidano ogni logica apparente, cadaveri che si rifiutano di rivelare i loro segreti e talvolta anche il loro nome. Storie incredibili di musicisti e viaggi sconclusionati finiti nel mistero. Tra i tanti, ne abbiamo scelti quattro: quattro drammi inquietanti che meritano il racconto.
1. Alain Kan
Pare che il francese Alain Kan sia stato avvistato per l'ultima volta il 14 aprile del 1990, nella metropolitana di Parigi alla fermata di Châtelet. Eppure non era tipo da passare inosservato: per come andava vestito e per quella luce strana e malinconica che aveva negli occhi, come di chi continui a inseguire disperatamente un sogno impossibile.
Alain debutta nel 1963 facendo buona musica leggera (anche se un po’ teatrale e provocatoria). Si converte al glam rock e nel 1977 sceglie definitivamente le file del punk, con una serie di pezzi “storici”. Niente però decolla davvero, ma solo quel tanto di successo che basta per registrare un paio di dischi, nei quali dichiara apertamente sia la sua scelta omosessuale che la sua dipendenza dalla droga.
Il titolo del primo LP è HEUREUSEMENT EN FRANCE ON NE SE DROGUE PAS (Per fortuna in Francia non ci si droga) e segna l’inizio dei suoi problemi con le autorità. La title track mette insieme un inventario di tutte le droghe psicotrope disponibili sulla superficie del pianeta, elogiando i vari stupefacenti in modo così eccessivo da far scattare immediatamente una denuncia, e il conseguente blocco della distribuzione del disco.
Ci riproverà negli anni Ottanta, realizzando un ultimo album, PARFUMS DE NUIT (Profumi di notte). Ma ormai il profumo è svanito, e solo la notte è rimasta. Tutto sembra precipitare inesorabilmente verso il vuoto. Fino a quella notte maledetta del 14 aprile 1990 alla fermata alla stazione Châtelet... Nel 2008 esce il bel documentario di Christian Lacroix, Alain Kan, l’enfant maudit du rock. Ma il mistero resta: e Kan è solo un altro mito da aggiungere alla zona maledetta del rock.
2. Connie Converse
Connie Converse (Elizabeth Eaton Converse all’anagrafe) ha vent'anni alla fine degli anni 40, quando decide di lasciare il nativo New Hampshire per conquistare New York. Connie non si limita solo a scrivere, ma compone e canta alla chitarra canzoni divertenti, piene di grazia e di fascino, in un nuovo stile che mescola country, blues e folk.
Nel 1954 il suo amico Gene Deitch registra le sue composizioni, ma senza un minimo di riscontro commerciale. La prima impressione, racconta Deitch, è stata di avere a che fare con una suora (in effetti, lei era cresciuta in una famiglia di religione battista), ma subito dopo era rimasto incantato dalla bellezza e dall’originalità delle sue canzoni. Così, l’aveva invitata a casa sua e avevano registrato una manciata di canzoni.
Allora Connie aveva trent’anni e viveva in una cameretta al Village, facendo in giro piccoli concerti per gli amici. Poi, delusa e stanca di New York, nel 1961 la giovane cantautrice decide di raggiungere suo fratello maggiore, professore universitario nel Michigan. Durante il decennio successivo, cerca di sopravvivere come può e comincia a bere seriamente. Fino all’agosto 1974, quando, ormai cinquantenne, dopo aver spedito diverse lettere a vari membri della famiglia, lascia la sua casa di Ann Arbor, destinazione ignota.
La società umana mi affascina, mi riempie di dolore e di gioia, ma io non so trovare il mio posto là in mezzo...
Nessuno l’ha più vista. Questa volta però c’è un ritrovamento, non di lei ma delle sue canzoni. Perché la sua musica è riapparsa. Prima un singolo, One By One trasmesso. E poi una raccolta nel 2009: HOW SAD HOW LOVELY (Così triste, così adorabile). 17 canzoni di grande bellezza che questa volta non passano inosservate.
3. Jim Sullivan
Il destino di Jim Sullivan era la musica. Per qualche tempo suona in una band di San Diego, The Survivors, poi a Los Angeles, con la moglie Barbara, alla fine degli anni 60. Le sue canzoni, tra folk-rock psichedelico e pop barocco, vanno a finire su un paio di album: U.F.O. e JIM SULLIVAN.
Il primo lo stampa la Capitol, nel 1969. 10 titoli, con dentro diversi potenziali singoli, portati da una voce profonda e terribilmente sensuale, ben supportati da arrangiamenti allora di moda. Un disco che poteva diventare un classico, ma evidentemente il suo destino era legato a quello del suo autore. Sullivan è stato infatti più volte lì lì per afferrare il successo, ma non ce l’ha mai fatta. Così anche il secondo album, JIM SULLIVAN (1972, Playboy Records), subirà la stessa sorte.
E allora Sullivan continua a vivacchiare, suonando con la sua band in piccoli club. Fino a che, nel 1975, decide di tentare la fortuna a Nashville, dove ha già preso qualche contatto. Saluta moglie e figli e si mette in viaggio verso la capitale del country. Ma non ci arriverà mai: la sua auto sarà trovata sul ciglio di una strada di Santa Rosa, nel New Mexico, con chitarre, portafoglio e bagagli all’interno, ma nessuna traccia di lui. Alcuni credono che si sia perso volontariamente nel deserto (“Basta camminare e camminare/Senza voltarsi mai indietro”, aveva scritto in una sua canzone). Altri che abbia avuto guai con una famiglia di mafiosi locali; o con la polizia. C’è anche chi crede che sia stato rapito dagli alieni, proprio come aveva raccontato nella sublime title track del suo primo album, U.F.O.
4. Richey Edwards
Richey Edwards, gallese di Blackwood, chitarrista ritmico dei Manic Street Preachers: probabilmente il “disperso” più famoso del rock inglese. Era diventato popolare per le sue lotte contro l’anoressia, la depressione e l’autolesionismo. Ma i fan della band lo amavano soprattutto per i testi dei Preachers, in gran parte scritti da lui: tutte quelle parole oscure, quasi da intellettuale rock, politicamente schierato come il resto della band. Tutto questo, insieme al suo carattere enigmatico e carismatico, gli ha creato attorno un vero e proprio status di culto.
Ha partecipato ai primi tre album del gruppo, GENERATION TERRORISTS (1992), GOLD AGAINST THE SOUL (1993) e soprattutto THE HOLY BIBLE (1994), l’album uscito un anno prima della sua scomparsa, avvenuta il 1° febbraio del 1995. Anche in questo caso, è stata ritrovata solo la sua macchina, vicino ai piloni del ponte di Hafren, che attraversa i fiumi Severn e Wye, collegando l’Inghilterra con il Galles.
Per anni sono continuate le ricerche, galleggianti anche qui in una serie incredibile di ipotesi, tra cui quella del suicidio. C’è anche da dire che il periodo iniziale dei Preachers è stato quello più folle e dissacrante. In particolare erano ben noti i problemi di Richey con cibo, alcool, Prozac e altre sostanze, così come il suo internamento al Priory Psychiatric Hospital. Per non dire della sua ultima apparizione con la band all’Astoria di Londra, il 21 dicembre 1994, conclusa con una micidiale distruzione di attrezzature e luci del palco.
Intanto la leggenda andava avanti, con gente che affermava di averlo visto in giro per il mondo, chi in un mercato hippy a Goa, in India, e chi nelle isole di Fuerteventura e Lanzarote. Poi, nel 2008, è stato dichiarato ufficialmente morto. Allora i Manic Street Preachers hanno smesso di versare sul suo conto bancario la sua parte di royalties (ma hanno lasciato il microfono sul palco davanti al posto che occupava Richey); e l’anno dopo hanno pubblicato l’album JOURNAL FOR PLAGUE LOVERS, con tutti i testi scritti da Edwards.
E a quel punto, sul caso Edwards, sono cominciate le pubblicazioni. Nel 2009 il libro di Rob Jovanovic, A Version of Reason: The Search for Richey Edwards of the Manic Street Preachers. A seguire, nel 2010, un romanzo di Ben Myers intitolato Richard: A Novel. E ancora nel 2015, How I Left the National Grid di Guy Mankowski. Infine il colpo di scena all’inizio del 2019, quando l’ennesimo libro, voluto – sembra – dalla sorella Rachel, racconta che Richey, ispirato da J.D. Salinger e dalla storia della sua prozia vissuta fino a ottant’anni come un’eremita, avrebbe organizzato la sua scomparsa in un kibbutz di Israele, dove ancora vivrebbe.