THE CLASH: this was Radio Clash

Non c’è da stupirsene: i CLASH (che nel suo organico più classico comprendeva i cantanti, chitarristi e autori Joe Strummer e Mick Jones, il bassista Paul Simonon e il batterista Topper Headon) è un eccezionale, intramontabile simbolo del rock a cavallo fra Settanta e Ottanta, e le sue canzoni hanno marchiato (a fuoco!) la storia. Detto che l’epilogo CUT THE CRAP è per svariate ragioni un capitolo a sé, non è certo errato delimitare la parabola cruciale del gruppo ai sei anni dall’esordio su disco del 1977 al successo del 1982 con COMBAT ROCK: 5 album di studio (fra i quali un doppio e un triplo), più tanti brani pubblicati solo su singolo da poterne confezionare un altro se non due, che parlano di una creatività formidabile, dove la quantità si accompagnava a un altrettanto stupefacente eclettismo.

Si pensi a, pescando più o meno a caso nel repertorio, White Riot e Clash City Rockers quali esempi di crudezza, energia e aggressività punk, o all’inno London Calling, capolavoro di “epica” rock’n’roll; a Train In Vain, per la freschezza filo-Sixties, o a This Is Radio Clash per la vena rap; a (White Man) In Hammersmith Palais o Guns Of Brixton per i legami con il reggae e a The Magnificent Seven o Rock The Casbah per quelli con il funk… per non dire dello ska (Rudie Can’t Fail), del rockabilly (Brand New Cadillac) o dello swing (Jimmy Jazz). Quanti altri sono stati capaci di toccare con disinvoltura un così alto numero di stili, rimanendo però sempre legati a una formula personale e riconoscibile, e soprattutto accusando minime cadute qualitative?

In quei sei anni, i Clash hanno in pratica scritto un autentico bignamino (e nemmeno tanto “ino”…) di due decenni di rock’n’roll, dando al contempo vita a una vicenda concitata e coinvolgente nella quale non si sono risparmiati in colpi di scena (furiosi litigi, improvvise sparizioni, proclami e smentite, arresti, droghe…) e hanno rischiato sulla propria pelle numerosi azzardi: dalle prese di posizione anti-statunitensi e anti-establishment al look militaresco che alimentò infondate accuse di simpatie per il National Front e la Destra in genere; dal contratto major, ritenuto dagli integralisti incompatibile con l’approccio barricadero, all’abiura (apparente) degli ideali punk pronunciata con LONDON CALLING, fino ai “braccio di ferro” sostenuti con la CBS affinché lo stesso LONDON CALLING e il suo successore SANDINISTA! fossero commercializzati a prezzo più basso. Pur non essendo mai stati innovatori in senso stretto, ma “solo” straordinari interpreti (e, a volte, anticipatori) degli umori musicali dei loro tempi, i Clash hanno ricoperto una posizione-chiave nella lunga saga del rock: sia nei giorni del primo punk britannico, quando s’imposero come “terzo polo” – quello della consapevolezza politica, non importa se un po’ confusa – accanto al situazionismo teppistico dei Sex Pistols e al qualunquismo burlone dei Damned, sia quando, tra hit e tour negli stadi, sono assurti al ruolo di stelle iconiche alla pari di Elvis Presley, dei Beatles, dei Rolling Stones o di Bruce Springsteen.

Un ruolo vissuto all’insegna della coerenza con se stessi (e non con un concetto astratto di coerenza) non tanto per la decisione – dovuta a problemi personali – di sciogliersi all’apice del successo, ma per la determinazione mostrata nel rifiutare le proposte di tornare a calcare i palchi; clamoroso l’esempio di metà anni Novanta, quando i quattro risposero “no, grazie” ai promoter che gli offrivano cifre comprese tra i cinque e i sette milioni di dollari per esibirsi come headliner del celebre festival itinerante Lollapalooza. Se mai un giorno i Clash avessero deciso di rinsaldare le fila non sarebbe stato per soldi, bensì per convinzione… e infatti, nei primissimi anni Zero, l’ipotesi cominciò a farsi concreta. In modo purtroppo drammatico, la morte del tutto inattesa di Strummer chiarì che, evidentemente, non era destino.

I Clash sono i protagonisti del numero #51 di Classic Rock, in edicola dal 27 gennaio. Un approfondimento che ripercorre tutta la loro carriera e tante foto inedite.

Sono trascorsi più di trent’anni da quando Radio Clash ha smesso di trasmettere e oltre quattordici dalla scomparsa di Joe Strummer, ma l’eco di quella musica continua a risuonare chiaro e forte.

Non c’è da stupirsene: la band londinese (che nel suo organico più classico comprendeva i cantanti, chitarristi e autori Joe Strummer e Mick Jones, il bassista Paul Simonon e il batterista Topper Headon) è un eccezionale, intramontabile simbolo del rock a cavallo fra Settanta e Ottanta, e le sue canzoni hanno marchiato (a fuoco!) la storia. Detto che l’epilogo CUT THE CRAP è per svariate ragioni un capitolo a sé, non è certo errato delimitare la parabola cruciale del gruppo ai sei anni dall’esordio su disco del 1977 al successo del 1982 con COMBAT ROCK: 5 album di studio (fra i quali un doppio e un triplo), più tanti brani pubblicati solo su singolo da poterne confezionare un altro se non due, che parlano di una creatività formidabile, dove la quantità si accompagnava a un altrettanto stupefacente eclettismo.

Si pensi a, pescando più o meno a caso nel repertorio, White Riot e Clash City Rockers quali esempi di crudezza, energia e aggressività punk, o all’inno London Calling, capolavoro di “epica” rock’n’roll; a Train In Vain, per la freschezza filo-Sixties, o a This Is Radio Clash per la vena rap; a (White Man) In Hammersmith Palais o Guns Of Brixton per i legami con il reggae e a The Magnificent Seven o Rock The Casbah per quelli con il funk… per non dire dello ska (Rudie Can’t Fail), del rockabilly (Brand New Cadillac) o dello swing (Jimmy Jazz). Quanti altri sono stati capaci di toccare con disinvoltura un così alto numero di stili, rimanendo però sempre legati a una formula personale e riconoscibile, e soprattutto accusando minime cadute qualitative?

In quei sei anni, i Clash hanno in pratica scritto un autentico bignamino (e nemmeno tanto “ino”…) di due decenni di rock’n’roll, dando al contempo vita a una vicenda concitata e coinvolgente nella quale non si sono risparmiati in colpi di scena (furiosi litigi, improvvise sparizioni, proclami e smentite, arresti, droghe…) e hanno rischiato sulla propria pelle numerosi azzardi: dalle prese di posizione anti-statunitensi e anti-establishment al look militaresco che alimentò infondate accuse di simpatie per il National Front e la Destra in genere; dal contratto major, ritenuto dagli integralisti incompatibile con l’approccio barricadero, all’abiura (apparente) degli ideali punk pronunciata con LONDON CALLING, fino ai “braccio di ferro” sostenuti con la CBS affinché lo stesso LONDON CALLING e il suo successore SANDINISTA! fossero commercializzati a prezzo più basso. Pur non essendo mai stati innovatori in senso stretto, ma “solo” straordinari interpreti (e, a volte, anticipatori) degli umori musicali dei loro tempi, i Clash hanno ricoperto una posizione-chiave nella lunga saga del rock: sia nei giorni del primo punk britannico, quando s’imposero come “terzo polo” – quello della consapevolezza politica, non importa se un po’ confusa – accanto al situazionismo teppistico dei Sex Pistols e al qualunquismo burlone dei Damned, sia quando, tra hit e tour negli stadi, sono assurti al ruolo di stelle iconiche alla pari di Elvis Presley, dei Beatles, dei Rolling Stones o di Bruce Springsteen.

Un ruolo vissuto all’insegna della coerenza con se stessi (e non con un concetto astratto di coerenza) non tanto per la decisione – dovuta a problemi personali – di sciogliersi all’apice del successo, ma per la determinazione mostrata nel rifiutare le proposte di tornare a calcare i palchi; clamoroso l’esempio di metà anni Novanta, quando i quattro risposero “no, grazie” ai promoter che gli offrivano cifre comprese tra i cinque e i sette milioni di dollari per esibirsi come headliner del celebre festival itinerante Lollapalooza. Se mai un giorno i Clash avessero deciso di rinsaldare le fila non sarebbe stato per soldi, bensì per convinzione… e infatti, nei primissimi anni Zero, l’ipotesi cominciò a farsi concreta. In modo purtroppo drammatico, la morte del tutto inattesa di Strummer chiarì che, evidentemente, non era destino.

Articolo tratto dal numero #51 di Classic Rock.

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