MORRISON HOTEL: ecco perché è uno degli album più iconici dei Doors

Annebbiato dall'alcol, vittima e parodia di se stesso, nel 1969 Jim Morrison si trovava ormai sull'orlo dell’abisso. Era tempo di chiudersi in studio e ricominciare. Nacque così uno dei dischi più graffianti dei Doors: MORRISON HOTEL.

I Doors avevano incarnato lo spirito libero degli anni 60, lo avevano incarnato fin troppo. Nel 1969, Jim Morrison era sempre più vittima del proprio personaggio, perennemente ubriaco fradicio e fuori controllo. La pubblicità negativa perseguitava lui, arrestato per atti osceni sul palcoscenico di Miami in aprile, come il resto della band.

Nemmeno l’America era messa meglio, intrappolata dalla guerra, dalla droga e dalla macchina omicida di Charles Manson.
Occorreva riabilitare l’immagine pubblica dei Doors. Che fare? Un quinto album in studio.

L’idea alla base di MORRISON HOTEL era, appunto, “riportare i Doors a casa”. Non fu facile ovviamente, perché Morrison non aveva né voce né concentrazione. Bill Siddons, manager dei Doors, ricorda una sessione in cui Morrison si scolò 36 birre di fila. Jim sapeva che avrebbe dovuto smettere di bere, lo ammise pure davanti ai compagni, cosa che sorprese tutti. Ciononostante, continuava imperterrito.

Paradossalmente, quello che uscì dallo studio fu il disco più trascinante dei Doors. L’apertura era affidata a Roadhouse Blues, con cui Morrison e il gruppo si mostravano per quel che erano, in un modo al tempo stesso divertente e vagamente inquietante. Altri brani inediti includevano Peace Frog, monolito funky che vedeva Krieger sciorinare uno dei suoi riff più memorabili e un testo scovato da Paul Rothchild in uno dei taccuini lasciati in giro in studio da Morrison.

Un altro brano centrale era Blue Sunday, vibrante canzone d’amore dedicata a Pamela Courson, amante di lungo corso di Morrison. Oppure chissà a chi altro. Poi c’era Queen Of The Highway: piano jazz elettrico, chitarra strappata, percussioni sparpagliate, la voce di miele di Jim. Mostrava di cosa erano ancora capaci i Doors, dove potevano arrivare, se solo fossero riusciti a impedire che il loro cantante si autodistruggesse.

Altri brani erano canzoni rilavorate, o ripescate dal passato, come Indian Summer, costruita sulle ceneri fumanti di The End. Waiting For The Sun era poi una rivisitazione delle sessioni originali del 1968, mentre The Spy un gioiellino che raccontava in musica l'abbandono di tale Sabina a pericolosi giochi perversi.

E la copertina dell'album? Una fotografia scattata da Henry Diltz che ritrae il vero Morrison Hotel a Los Angeles, scovato dal management del gruppo per accoppiarlo alle foto del vero Hard Rock Café al 300 East 5th Street di LA, titolo della seconda metà del disco. Diltz immortalò il gruppo in entrambi i luoghi, ritrovandosi a litigare con il proprietario dell’hotel, che gli negò il permesso di fotografarli dentro il suo locale. Diltz scattò lo stesso, costringendo il gruppo a mettersi in posa al volo mentre il proprietario era voltato.

Quando, nel febbraio del 1970, MORRISON HOTEL fu pubblicato, la critica ne rimase entusiasta. Il redattore della nota rivista «Creem» Dave Marsh lo descrisse come “il disco di rock’n’roll più devastante che io abbia mai sentito”, mentre «Circus» lo definì “probabilmente il miglior disco dei Doors, rock duro, cattivo e potente”.

Divenne Disco d’oro in 3 settimane, scalando le classifiche americane fino al quarto posto, migliore piazzamento da oltre 2 anni.

Nel frattempo, la band aveva ripreso i live. Prima, 4 concerti al Felt Forum di New York, poi altri 6 a febbraio, altri 13 ancora tra la primavera e l’inizio dell’estate 1970, registrati da Paul Rotchild.

La qualità variava: da esecuzioni trionfali (come metà set di Boston) ad altre in cui Morrison barcollava sul palco, sotto l'effetto della cocaina oppure così sbronzo da riuscire a malapena a pronunciare i testi delle canzoni. E anche quando i Doors andavano bene, c’erano problemi. Alla Cobo Arena di Detroit l’8 maggio suonarono in modo superbo per oltre quattro ore, eppure fu vietato loro di suonarci di nuovo, perché avevano superato l’orario imposto dal sindacato.

In un certo senso, il MORRISON HOTEL non era un posto dove gli ospiti resistevano a lungo. Ma nessuno di loro avrebbe mai dimenticato di avervi soggiornato.

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