LOU REED: l’avventura musicale dopo i Velvet Underground

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È il 1972: dopo l’esperienza con i Velvet Underground, Lou Reed riparte da se stesso. Seguono numerosi dischi in studio e altrettanti live. Oggi vi parliamo del primo, LOU REED:

Dopo i Velvet Underground, abbandonati prima dell’uscita di quel LOADED che darà alla band le sue maggiori (seppur sempre limitate) soddisfazioni commerciali, l’incerto esordio solista è abitualmente bollato come una delle peggiori prestazioni artistiche di Lou Reed. Sicuramente, l’impronta stilistica che lo renderà celebre è qui ancora latente e solo vagamente accennata.

Lou era stato indotto a lasciare il suo volontario momento di pausa, speso a lavorare come dattilografo nell'azienda paterna a Freeport, per volare a Londra a incidere senza troppa convinzione un disco con l'aiuto di session men di primo livello, qualitativamente ineccepibili, ma decisamente lontani dal suo mondo: Steve Howe e Rick Wakeman degli Yes, innanzitutto.

Aggiungiamoci il batterista Clem Cattini (uno che ha suonato in 42 hit arrivate al primo posto delle classifiche UK), il chitarrista di Elton John (Caleb Quaye), il bassista Les Hurdle (che ritroveremo con Lucio Battisti, Umberto Tozzi e Donna Summer). Una compagnia affidabile, ma puramente esecutiva. E si sente.

L’album è buon disco di rock anni 70 che ricicla otto brani rimasti impigliati nelle maglie dei Velvet Underground e mai pienamente utilizzati (se non dal vivo o come demo, poi progressivamente ristampati nelle versioni originali nelle successive riedizioni che hanno suggellato la tarda consacrazione della band nella storia del rock) e aggiunge due inediti (Berlin verrà ripresa l’anno dopo nell’omonimo album).

Nonostante l’inconfondibile timbro, anche la voce di Lou è meno incisiva: s’inerpica su note e melodie complesse in Ride Into The Sun con un arrangiamento pretenzioso e magniloquente caratterizzato da una chitarra solista invadente e una batteria troppo in primo piano, canta il resto con un’attitudine forzata in cui sembra di cogliere un’indolente e annoiata sensazione di fastidio, quasi una consapevolezza di essere fuori posto, costretto a fare qualcosa che avrebbe voluto evitare.

Ci sono momenti, come le poderose I Can’t Stand It Walk And Talk It (quasi un’outtake dei Rolling Stones) che tengono i ritmi alti, mentre Lisa Says è un perfetto ritratto sonoro del Lou Reed che verrà.

Interessante è anche l’approccio pop che pervade l’album, non è dato sapere quanto intenzionale e consapevole, alla ricerca di un riscontro commerciale. Il produttore Richard Robinson, già attivo con i Flamin’ Groovies (e che, nonostante le carenze di questo album, ritroveremo a fianco di Reed pochi anni dopo, per il capolavoro STREET HASSLE), sembra non avere le idee del tutto a fuoco e accosta sonorità classicamente rock a un’anima più soul e rhythm and blues, cercando, nello stesso momento, di conservare il suono scarno e sotterraneo tipico dei Velvet Underground.

In definitiva, l’album ci mostra il lato più versatile di Lou Reed e non può certo dirsi sgradevole, ma ha il sapore di un esperimento poco riuscito. E si rivelerà un disastro commerciale che metterà in serio rischio la sua carriera solista. Ma presto arriverà David Bowie e tutto cambierà. Completamente.

L'articolo completo, a cura di Antonio Bacciocchi, è disponibile sul nuovo numero di Classic Rock, in edicola e sul nostro store online.
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