Stavolta Paul McCartney l’ha fatto davvero. Un disco diretto, onesto, senza compromessi: preparatevi all’ascolto di qualcosa di unico nel suo percorso artistico.
Frutto della quarantena primaverile anti-Covid passata da Paul presso la sua dimora immersa nella campagna del Sussex, McCARTNEY III ci regala un musicista che lascia da parte la preoccupazione di piacere a qualcuno se non a se stesso.
In quarantacinque minuti e undici tracce, Paul McCartney mette in fila tutti e lo fa da solo, perché non ha bisogno di nessuno quando vuole. Non aspettatevi una produzione patinata, dimenticate la magniloquenza di EGYPT STATION: qui
McCartney ci prende per mano e ci invita a casa mentre si trastulla tra una chitarra e i tamburi, tra una tastiera e il basso, lasciandosi andare e proponendo una certa qualità ruspante delle sonorità, in passato troppo spesso sacrificate sull’altare del pop all’ultima moda.

Un particolare mood acustico avvolge tutto l’album: si tratta in questo senso di uno dei dischi più organici della sua carriera. L’album prende il via con Long Tailed Winter Bird, imperniata su un riff blues eseguito all’acustica: un’apertura strumentale di quasi sei minuti, un unicum per Paul. Come in ogni collezione di canzoni di McCartney, le nuance e i colori sono tanti, i riferimenti anche i più insoliti. C’è la dimensione bucolica nei due bozzetti acustici, The Kiss Of Venus e When Winter Comes, recuperata da una seduta con George Martin del 1992: con la sua semplicità alla Buddy Holly, è una delle cose migliori.
C’è il pop quasi psichedelico di Find My Way e Seize The Day, con trovate armoniche e sequenze di accordi che solo McCartney sa inventare; c’è il folk elettrificato di Pretty Boys e c’è il sermone tenebroso di Women And Wives, ballata per piano, batteria e contrabbasso.
La cifra blues-rock caratterizza anche la fragorosa Slidin’ e Lavatory Lil, tiratissima e tutta spigoli: che riff, che chitarre… Paul si fa languido in Deep Deep
Feeling, che vanta persino atmosfere acidjazz, e in Deep Down, dalle sonorità anni Settanta, con Fender Rhodes e drum machine.
Nell’anno spartiacque dell’era contemporanea, McCartney dimostra ancora
una volta che il mezzo è il messaggio, che la musica riesce a spiegare, a trasmettere, a liberarci come poche altre cose.