Sanremo: ecco cosa successe davvero quella prima sera

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Testo di Eddy Anselmi

I primi anni del Festival della Canzone Italiana: la radio, il repertorio, gli editori e un dopoguerra che tarda ad arrivare.

Lo storico del futuro che si trovasse a ricostruire le vicende dell’Italia del Novecento potendo considerare solo i dischi, gli spartiti e la programmazione musicale della Radio potrebbe quasi non accorgersi delle vicende belliche e politiche che nell’arco di pochi anni segnano la trasformazione del Paese in senso democratico e repubblicano.

Dopo l’ebbrezza fugace della musica americana portata nella Penisola dalle truppe alleate, il repertorio trasmesso dalla Radio non trovò alcuna soluzione di continuità con gli stili e i contenuti di prima della guerra. Se il cartellone degli interpreti era cambiato, autori, editori, musicisti, stili e contenuti erano pressoché gli stessi dell’anteguerra. Chi ascoltasse una canzone dell’inizio degli anni Trenta non la riuscirebbe a distinguere da una composizione della fine degli anni Quaranta.

Perché una canzone fosse ammessa all’esecuzione e alla trasmissione radiofonica, ancora nel 1950 era necessario un nulla osta di una commissione d’ascolto della Radio, composta da membri di mezza età, di formazione classica e accademica, senz’altro refrattari all’introduzione di novità. Il disco come lo conosciamo quasi non esiste. Il supporto a 78 giri è costoso e fragile, e costosissima è l’apparecchiatura necessaria a riprodurlo. La musica guadagna con la vendita degli spartiti e con l’esecuzione delle canzoni riportata nei borderò delle orchestre, ma perché le orchestre rinnovino il loro repertorio è necessaria una spinta promozionale che, all’indomani del conflitto, si sta praticamente esaurendo.

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Sono pochi i motivi che rinnovano la scaletta delle orchestre, e gli editori non lesinano pressioni sulla direzione dell’ente radiofonico di stato perché il servizio pubblico, monopolista delle trasmissioni, inserisca nuovi titoli con cui il pubblico potesse familiarizzare. Serve un premio, una rassegna che doni alle canzoni nuove quella nobiltà d’elezione e ne giustifichi la trasmissione dalle paludate frequenze della Radio. È in questo quadro che nascono i primi Festival della Canzone, dopo gli esperimenti tenutisi nell’anteguerra nelle località turistiche della riviera adriatica e poi in Versilia, in quelle due edizioni che rappresentano quasi la prova generale del Festival di Sanremo che sarà.

A Sanremo, l’idea di un Festival della canzone era stata avanzata dopo la conclusione del conflitto da Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori e membro della commissione deputata al rilancio del Casinò. Non ha in mente un concorso come quello che conosciamo, piuttosto una rassegna di concerti come quella che verrà inaugurata dieci anni dopo a Montreux, in Svizzera. Il futuro animatore del Club Tenco non aveva avuto successo, e – mentre la vicina Cannes inaugurava il suo Festival del CinemaSanremo manteneva un tono d’alto lignaggio preferendo eventi paludati come presentazioni di libri e concorsi canini. La società ATA, concessionaria del Casino, affidava la direzione artistica ad Angelo Nizza, drammaturgo e commediografo torinese ben introdotto negli ambienti della Radio.

Negli anni Trenta i suoi spettacoli di successo – primo tra tutti la rivista radiofonica I quattro moschettieri – sono diventati famosissimi. Ad avere l’idea del Festival sarebbe proprio Nizza. Prima convince Pier Busseti, presidente della società concessionaria, poi contatta il direttore della radio Razzi, che accetta di porre sotto l’egida della Rai il primo Festival della Canzone italiana, in programma nelle serate di lunedì 29, martedì 30 e mercoledì 31 gennaio 1951 e trasmesso in diretta radiofonica dal Salone delle Feste del Casino municipale di Sanremo. Sulle pagine del «Radiocorriere», l’house organ della Radio Italiana, compare il bando che invita gli autori a sottoporre le loro canzoni inedite a una commissione.

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Le canzoni sono affidate all’Orchestra del maestro Cinico Angelini. Oggi leggiamo il primo Festival di Sanremo come siamo abituati, pensando a una gara tra cantanti: in realtà le prime due edizioni sono esclusivamente una competizione tra autori e tra canzoni. Nel 1951 gli interpreti sono solo tre, tutti in forze all’orchestra Angelini. Se serve una voce maschile, canta Achille Togliani, quando è il turno di una voce femminile è il turno di Nilla Pizzi, e quando è necessaria un’armonizzazione, è sul palco il duo vocale delle gemelle torinesi Dina e Delfina Fasano. I cantanti arrivano insieme ai musicisti dell’orchestra. Lavorano a Torino, nella sede della Radio, dove hanno turni di lavoro da dipendente, timbrando il cartellino all’ingresso in azienda. A presentare viene chiamato Nunzio Filogamo, attore e presentatore: la sua è una delle voci più riconoscibili della Radio.

Il Festival si svolge in gennaio, quando la riviera di Ponente vede numerosi milanesi e torinesisvernare’, all’inizio della settimana, non certo nei giorni più importanti di un cartellone, quello del Salone delle Feste del Casino, che vedeva concerti da camera e operistici, convegni e presentazioni di opere letterarie. Gli spettatori non consumano la cena durante lo spettacolo come vuole la leggenda, ma la platea è composta da tavolini dove i presenti possono chiamare il cameriere e ordinare un drink. La scelta di gennaio è strategica perché immediatamente precedente al periodo del Carnevale, stagione le cui feste, nell’Italia del Dopoguerra, sono estremamente popolari.

Sarà il Carnevale 1951 il primo vero banco di prova per le canzoni festivaliere. Del primo Festival della canzone si sa tutto, o quasi. Circolano pochi aneddoti, e le stesse canzoni che volevano «svecchiare il repertorio» non sono altro che nuove composizioni nella più pura tradizione del manierismo di metà Novecento. Qualche accenno di novità si trova nel motivo vincitore Grazie dei fiori, una Beguine con accenni di cool jazz alla Benny Goodman, composizione sofisticata e per nulla cucita sui gusti del pubblico popolare che mette in scena un dramma alto-borghese – in nessuna casa popolare ci sono tanti fiori – e riesce strumentale a collegare il festival con la città che lo ospiterà per sempre, la città dei fiori, appunto.

Un anno dopo, sono ben 140 in più le canzoni pervenute, segno che le case editrici cominciano a capire l’importanza dell’evento, e segno che il Festival di Sanremo ha raggiunto il suo obiettivo. La macchina del Festival non modifica le sue strutture e la sua atmosfera cordiale e rilassata ma cresce il numero degli interpreti, che da tre passano a cinque, con l’aggiunta di un interprete di stampo tradizionale e già nella fase calante della sua carriera, Oscar Carboni, e di un gorgheggiatore più moderno, Gino Latilla.

Nato piuttosto alla svelta, un anno prima, senza ambizioni eccessive, il Festival di Sanremo si trova a essere promosso, dal ruolo originale di manifestazione di medio rilievo nel programma di quelle sorprese che ogni comitato turistico ha l’obbligo di mettere insieme per gli ospiti, a una specie di “Piedigrotta” del Nord. Una “Piedigrotta” meno spontanea, più industriale dell’altra, in cui selezione e premio dei “successi” non avvengono a furor di popolo, ma tramite una procedura che seleziona a caro prezzo i votanti.

Il biglietto d’ingresso, molto costoso, alla sala delle audizioni dà diritto a una scheda numerata, attraverso la quale si segnalano alla commissione scrutinatrice i motivi preferiti. Le circa seimila orchestrine da ballo, le riviste, il cinema e soprattutto la radio hanno portato il consumo della musica leggera a livelli non immaginabili solo pochi anni or sono: delle canzoni ammesse al Festival sono già pronti i – pochi – dischi, le partiture, per il lancio immediato a microfono ancora caldo dell’alito degli interpreti, perché la sola presenza al Festival di un motivo è il viatico per la sua affermazione.

 

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