Alberto Fortis: “La trap? Un incantesimo da cui ci sveglieremo”

alberto fortis

"Milioni di follower capiranno di essere come cani che inseguono una lepre meccanica. Stiamo assistendo a un indottrinamento teso verso il basso". Scomodo, colto e sempre ispirato, il cantautore di Domodossola dice la sua su tutto: "Tra i genovesi preferivo Tenco". "Il pezzo che avrei voluto scrivere? L'Anno che Verrà"  

Intervista esclusiva di Fabio Cormio
Foto di Monica Papagna

Acuto, scomodo, curioso, intellettuale ma non per questo autorecluso in una torre d'avorio. Classe '55, il cantautore di Domodossola è tutto questo ma soprattutto rivendica di essere ancora un artista in divenire.

Esploso nel 1979 con l'album ALBERTO FORTIS, accompagnato dalla PFM, ha conosciuto enorme popolarità con i singoli La Sedia di Lillà, A Voi Romani, Milano e Vincenzo, Il Duomo di Notte (più tardi arriveranno Settembre e La Neña del Salvador), per poi cercare soprattutto all'estero la propria crescita professionale, tramite collaborazioni di altissimo profilo (per esempio George Martin, "il quinto Beatle"), rinunciando a inseguire a ogni costo il successo commerciale in Italia ("qualcuno si aspettava cloni degli album precedenti").

Un Alberto Fortis sereno e riflessivo, aperto al confronto, dice la sua sulla musica di oggi, parla della trap e di questo momento avvilente per la musica italiana "anche se - spera - forse è la vigilia di un nuovo rinascimento". Poco tempo fa è uscito per l'etichetta Azzurra Music un doppio cd dal vivo, contenente il live al Castello Sforzesco di Milano, con dvd e book con foto, chicche e memorabilia.

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Come si è svolto il passaggio da artista "mainstream", in quel periodo di enorme popolarità tra il '79 e l'81/82, a cantautore meno esposto alla massa? Hai desiderato allontanarti dalla massa?

Non è stata una mia scelta ma una convergenza di vari fattori: il primo è il fatto che ho lasciato l'Italia per trasferirmi negli Stati Uniti, con tutte le collaborazioni che ne sono derivate. L'inizio di questo percorso era stata la registrazione di un album agli Abbey Road Studios, a Londra, con la collaborazione di George Martin. Io ho sempre avuto una gran sete di collaborazioni, che mi ha portato alla metà degli Anni '90 a spostarmi all'estero. Questo per dire che c'è stato prima di tutto un mio allontanamento fisico dal territorio italiano. Per quanto riguarda la minore esposizione al grande pubblico, diciamo che in parte queste cose dipendono da momenti di mercato, almeno in parte. Perché è vero che non sempre ti veniva data la giusta esposizione.

Un problema solo di quei tempi?

Naturalmente no. Al giorno d'oggi per esempio sono i grandi eventi, cioè talent e festival, e la 'heavy rotation' radiofonica, a portarti al pubblico più vasto. Se non sei lì, la gente perde la percezione di dove sei e di cosa stai facendo.

Com'è il panorama musicale italiano oggi?

È cambiato il mondo, la musica è la forma d'arte più saccheggiabile, nel senso che se ne può usufruire gratuitamente. In questo panorama complicato si segnala un ritorno di ciò che è storico, per esempio la bella crescita del mercato del vinile, mentre il cd, che è sentito un po' come una via di mezzo tra liquido e materico, andrà progressivamente a sparire. Per quanto riguarda i nuovi artisti, mi tocca dire che la scena è un po' sconfortante, la qualità è molto bassa e mi riferisco alla qualità dei contenuti e non delle produzioni. In particolare l'ondata della trap, alla quale ho guardato e guardo ancora con interesse e curiosità, ha finito per sdoganare volgarità fine a se stessa. Un bel giorno milioni di follower usciranno da questo incantesimo di massa e si renderanno conto di essere come dei cani che stanno inseguendo una lepre meccanica. Il meccanismo è molto chiaro e preciso. Faccio dei distinguo, per quanto riguarda gli artisti giovani, perché per esempio a me Ghali, Calcutta e altri non mi dispiacciono, ma per la maggior parte la musica di questo periodo, dal punto di vista culturale, artistico e sociale, non rimarrà, perché non porta bellezza.

Se dovessi ricominciare oggi la tua carriera, scriveresti ancora un pezzo come A Voi Romani ("E vi odio voi romani, io vi odio tutti quanti") che certamente ti ha portato delle antipatie?

Ero un ragazzo di vent'anni quando ho cercato Roma perché ero innamorato della scuola cantautorale romana, in particolare De Gregori e lo stesso Claudio Baglioni, il cui lp QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE fu il primo album concept con una storia, una sorta di musical discografico. La mia canzone era chiaramente votata a denunciare uno status, un 'malgoverno', lo stesso che avrebbe portato molti anni dopo a Mafia Capitale. Io non ho detto nulla che i romani stessi non pensassero, solo che se le dici sei scomodo... Per molti è meglio far finta che i problemi non esistano. Io ho dato fastidio a qualcuno in alto, sia nella discografia che non. Vedi però la differenza? Oggi i testi della trap dicono cose pericolose inneggiando all'uso di sostanze e persino a violenze sessuali. Ok, allora facciamo che vale tutto e sdoganiamo questa Era degli Orchi del Signore degli Anelli... Eppure questo tipo di onda di volgarità viene lasciata correre e secondo me questo accade perché questa roba è funzionale a una sorta di assoggettamento culturale, a un livellamento verso il basso.

Ci sono differenze sostanziali nel produrre musica all'estero invece che in Italia?

La differenza si sentiva molto negli Anni '80 e '90, anche per le possibilità tecnologiche dell'epoca, oltre che alle capacità dei session man. Per questo io ho registrato nell'81 a Los Angeles il mio album LA GRANDE GROTTA, poi molti altri dischi tra LA e New York. Anche per questo mi sono evoluto molto con gli anni e forse questo ha deluso quella parte di pubblico che vorrebbe 'sempre la stessa cosa'. La verità è che lavorare all'estero mi ha fatto crescere moltissimo artisticamente, mi ha regalato un'evoluzione che io - magari scioccamente - non baratterei con dei primi posti in classifica ottenuti ricalcando gli album precedenti. Mi spiego meglio: quando dico che mi sono evoluto non intendo che sono cambiato rinnegando qualcosa, prova ne è il fatto che quando pubblicammo il primo greatest hits (FORTISSIMO, 1984) che raccoglieva il meglio dei 6/7 album precedenti, sembrava di ascoltare un disco coerente.

Tra i grandi cantautori della tua generazione e di quella precedente, c'è qualcuno a cui senti di esserti ispirato?

Quando si è artisti si è delle spugne, si risente della cultura del proprio periodo e anche dei luoghi. Io per esempio sono un ex studente di medicina a Genova, alla fine degli Anni '70, e in un certo senso la scuola genovese si fa sentire nella mia musica, forse anche perché ho sempre amato molto Jacques Brel, che notoriamente ha ispirato molto De André. Per la verità io preferivo Luigi Tenco perché, mentre gli altri potevano forse aver assimilato, consciamente o meno, qualche stilema estero, Tenco era davvero nuovo ed era una folgore: uno che scrive un verso come "Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare" è secondo me un vero genio, diverso da chiunque.

C'è un brano di un altro cantautore che ti ha fatto pensare "questa vorrei averla scritta io"?

Come album direi RIMMEL di De Gregori, ma come canzone dico L'Anno che Verrà di Lucio Dalla, laconica, geniale, immensa, ma che ha anche una forza musicale che la rende diversa dalla tipica canzone italiana, un elemento dovuto all'andamento melodico che la fa sembrare quasi una nenia sudamericana.

Alcuni tuoi brani, come Il Duomo di Notte (che ti è valsa tanti premi compreso un Ambrogino D'Oro), sono ermetici e non decifrabili al primo ascolto: la magia dei capolavori musicali sta però anche nel fatto che riescano a colpire con la potenza delle proprie immagini, senza la necessità di essere interpretati.

La scrittura può avere due forze diverse: una è lo 'shot immediato' (tipico di canzoni come L'Anno che Verrà) e l'altra è invece l'alchimia, preferisco questo termine rispetto ad 'ermetismo', ed è il caso de Il Duomo di Notte, che entra in una sorta di evoluzione interpretativa da parte di chi ascolta. Secondo me una canzone deve essere la clip di se stessa, deve farsi vedere e non solo ascoltare, maestri di questo sono stati i Beatles, pensiamo solo a A Day in the Life o Eleanor Rigby. Questa è l'arte: instillare in una scommessa che dura tre minuti una storia che diventi la colonna sonora del quotidiano. E sarebbe augurabile che ci fosse un rinascimento di scrittura, dopo quella sorta di oscurantismo degli ultimi anni.

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E allora parliamo di quello che c'è di buono oggi in Italia. Qualche nome?

Coez e Dente sono i primi nomi che mi vengono in mente. Brunori Sas è bravo e ha successo, anche se in lui sento molto De Gregori e Dalla. Ma c'è anche una bella forza al femminile in questo periodo, il 'femminino sacro' è più forte e meno preoccupato di regole e imposizioni.

Che caratteristiche dovrebbe avere un nuovo Alberto Fortis?

Oggi servono coraggio, autenticità, capacità di liberarsi da quella simultaneità che ci ossessiona. Il nuovo Fortis dovrebbe avere tutto questo ed essere un potente reporter di quello che viviamo, ma un reporter dotato di una sua poetica. Ma oggi l'industria non ti permette tutto questo.

Gli anni ti hanno cambiato?

I colori principali della mia personalità sono rimasti quelli di sempre, ma certamente non ho più l'emotività di un ventenne, ho lavorato su me stesso. Ero più polemico, mentre ora do più valore al confronto. Il filosofo e sociologo Martin Buber parla di quanto sia più preziosa l'intersoggettività, cioè la condivisione dei propri stati... anche - perché no? - sui social come Instagram. Questo è il tema della mia canzone Venezia, pubblicata nel 2018, che ritengo abbia un testo all'altezza de Il Duomo di Notte e forse avrebbe meritato un po' di attenzione in più.

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