Bonzo, The Beast, God of Thunder: chi era il batterista dei Led Zeppelin

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Bonzo, The Beast, God Of Thunder: tre soprannomi per un batterista che in una manciata d’anni ha cambiato la faccia del rock.

Il batterista dei Led Zeppelin è per tutti Bonzo, da un simpatico cagnetto creato e disegnato nel 1922 da George Studdy che alla fine dei Sessanta, in piena psichedelia, entra nel mondo rock grazie ai Bonzo Dog Band. Ma nei giorni del successo, quando è lontano da casa e ha parecchio alzato il gomito, John Bonham diventa anche The Beast. Specialmente quando è in compagnia del tour manager della band Richard Cole, che lo aizza e poi lo ferma a suon di pugni, la sua personalità cambia totalmente: distrugge mobili, camerini e stanze d’albergo, per un nonnulla alza le mani.

A Stephen Davis, autore del libro Hammer of The Gods, il discografo Bonham Gautier ricorda che il batterista “si metteva a piangere quando parlava della sua famiglia. Poi i roadie cominciavano a spingerlo a fare qualcosa e lui perdeva il controllo. Non aveva alcuna difesa naturale contro chi cercava di manipolarlo e non c’era nessuno a proteggerlo”.

john bonham

Un altro soprannome affibbiato a Bonham è God Of Thunder. La definizione si adatta perfettamente al suo drumming: potente, tonante, immenso. L’artista è prima di tutto attento al timbro e alla musicalità che deriva dal colpo dato sulla pelle. Ed è originale. Più della tecnica, è questo che gli interessa.

I primi batteristi che lo affascinano, quando è ancora bambino, sono jazzisti dal tocco vigoroso come Gene Krupa e Buddy Rich. In seguito, ascolta quelli del soul e sviluppa uno stile personale nel quale, in antitesi con molti strumentisti di radice jazz, sono i tamburi il sole indiscusso. Non ama i piatti e per il suo kit, generalmente abbastanza spartano e ispirato a quello di Rich, le pelli rimangono il materiale preferito da percuotere.

Poi c’è la cassa: ne usa una sola, dal 1970 una immensa 26x14, ma dal suono prodotto sembra che ne usi due. Esemplare, da questo punto di vista, è la sua opera, pazzesca, in Good Times, Bad Times, dal primo album dei Led Zeppelin: tutti, quando il disco esce, pensano che sia il frutto di un sapiente uso della doppia cassa, e invece è una e maledettamente ben suonata. Muoversi magistralmente con le bacchette e i pedali, però, non è per Bonham solo un dono di natura.

C’è, dietro, tanta pratica e un buon passato. Come più volte ha raccontato, a cinque anni già gli piaceva esercitare la sua arte battendo con le forchette e i coltelli sulle pentole della madre e su un vario assortimento di scatolame di latta. Nato il 31 maggio 1948 a Redditch nel Worcestershire, Bonham cresce in un ambiente di campagna e la sua precoce passione per i tamburi viene incoraggiata dai genitori. A otto anni, il padre lo porta al cinema a vedere The Benny Goodman Story e John si esalta ascoltando Gene Krupa, che diviene il suo “dio”, scatenato sui tom in Sing Sing Sing (With A Swing).

Poi, a dieci, la madre gli regala un rullante, poi a quindici Bonham ha il suo primo rudimentale drum kit: si esercita molto e prende a suonare con vari gruppi locali come il Blue Star Trio, Terry Webb & The Spiders, i Senators, con il quali incide una traccia, i Nicky James Movement e gli A Way Of Life. Si fa una discreta fama – non sempre positiva. Come ricorda a Chris Welch in un’intervista del 2007 (riportata su The John Bonham Story in «Traps»), “io suonavo nel modo che volevo e sono stato inserito nella lista nera a Birmingham. ‘Sei troppo pesante’, mi dicevano, ‘non hai futuro’”.

I gestori dei locali, così, non lo amano. Nel frattempo, a proposito di amore, Bonham è preso da Pat Phillips, che mette incinta di Jason, e sposa. Ha appena diciassette anni, non ha soldi per mettere su casa e, in ambito musicale, suona troppo forte per avere, appunto, un futuro. Però è bravo e, a dispetto dei gestori che lo vorrebbero fuori dai loro club, le band se lo contendono. Passa velocemente di gruppo in gruppo e nei Crawling King Snakes è con Robert Plant, con il quale poi suona anche nella Band Of Joy insieme ad alcuni dei futuri componenti dei Bronco.

Nel 1968 entra nella formazione del cantautore statunitense Tim Rose e sembra che le cose si mettano bene: cinquanta sterline alla settimana non sono poco e quando Jimmy Page, John Paul Jones, Plant e il manager Peter Grant, che stanno tentando di riorganizzare gli Yardbirds, lo invitano a unirsi a loro, Bonham nicchia un po’. Interessa anche a Joe Cocker e Chris Farlowe e ritiene che gli Yardbirds ormai siano una causa persa. Lo tempestano, però, di telegrammi e alla fine lui si convince. Così è con gli Yardbirds nel successivo tour scandinavo. Subito dopo nascono i Led Zeppelin.

Grant è un manager spietato ma abile e ottiene un ottimo contratto con la Atlantic. In ottobre, pertanto, tutti sono agli Olympic Studios di Barnes e in una trentina di ore, divise tra performance e mixaggio, nasce LED ZEPPELIN. L’impatto è fulminante, l’affiatamento perfetto. E poi c’è Bonham: suona duro come un martello e già mette in mostra alcune delle sue caratteristiche più specifiche – come, per esempio, il micidiale uso delle tiplette.

Mentre è in via di pubblicazione il disco, Led Zeppelin sono già in tour negli Stati Uniti insieme ai Vanilla Fudge e qui Bonham, che comincia a sperimentare con piacere i pazzi eccessi della vita on the road, diviene amico del batterista della band americana Carmine Appice. Ed è proprio quest’ultimo, che in quanto a drumming potente non scherza, a consigliargli di adottare un kit come il suo, della Ludwig. Per la sua prima sponsorizzazione, Bonham ha due casse e le sperimenta. Ma i suoi compagni preferiscono che ne suoni una sola e lo convincono che, con la sua abilità e il magico piede che si ritrova, non ha bisogno della seconda.

Poi ci sono nuovi tour e d’altronde con Grant come manager, che protegge i suoi ragazzi come figli ma in affari è un vorace pescecane, si galoppa parecchio. In autunno esce LED ZEPPELIN II. Seguono nuovi lunghissimi giri concertistici e più degli altri è Bonham ad andare facilmente fuori di testa. D’altronde, lui è un provinciale legato alla sua terra e alla sua famiglia. E non a caso, quando per LED ZEPPELIN IV deve scegliere per sé un simbolo runico, opta per quello dei tre cerchi legati fra di loro: ovvero “uomo-donna-bambino”. Essere sempre via, pertanto, gli offre tante soddisfazioni economiche, ma è sempre un peso e per di più ci sono i trasferimenti in aereo: Bonham, che guida come un pazzo, ha una gran paura di volare.

Così l’alcol, bevuto in modo smodato, diviene la sua principale difesa allo stress cui è sottoposto, il che non aiuta di certo né l’entourage della band, composto in genere da persone piuttosto su di giri, né la sua specifica personalità, definita come quella di un bambino nel corpo di un adulto.

Quando, però, torna in famiglia, è un altro: cura il giardino, adora il figlio e la moglie, passa molto tempo nel suo pub preferito, cura le sue costose auto e le moto di cui è maniaco. Nel 1970, comunque, i Led Zeppelin sono ormai stanchi e stremati. Bonham e Jones si prendono un periodo di riposo, mentre Page e Plant si rifugiano in una rustica dimora di Bron-Yr-Aur, in Galles, e concepiscono parte di LED ZEPPELIN III.

Su questa via proseguono nei successivi LED ZEPPELIN IV, HOUSES OF THE HOLY e nel caleidoscopico PHYSICAL GRAFFITI. Dal punto di vista della composizione dei brani, raramente Bonham è accreditato, però spesso il suo apporto dal punto di vista creativo è fondamentale.

john bonham

Ora, però, i Led Zeppelin di trovano a dover lavorare parecchio all’estero perché in patria le tasse sono altissime. E Bonham non ne è felice. Quando, nell’autunno del 1975, arriva a Los Angeles per preparare il nuovo album, è rabbioso e depresso.

Come racconta Davis: “A giugno sua moglie aveva dato alla luce una bambina, Zoe, e lui non sopportava di non essere con lei. Non gliene fregava niente del denaro, voleva stare solo con sua moglie. Ora che era separato dalla sua famiglia, era tornato a essere The Beast e si aggirava in cerca di vittime sul Sunset Strip. Quando era sobrio era il solito piacevole John Bonham... Ma quando era ubriaco, e in America lo era il più delle volte, era una mina vagante... distruggeva tutto quello che incontrava”.

Nel 1977 segue un nuovo lungo tour negli Stati Uniti, l’undicesimo per la band, e il clima è pessimo. Page e parte dei roadies pensano soprattutto all’eroina; Grant, che in genere tira su il morale a tutti, è perennemente incazzato perché la moglie lo ha lasciato; Bonham, che si divide tra alcol e cocaina ma non disdegna lo smack, è chiuso in se stesso.

A Oakland il batterista finisce dentro con Grant, Cole e il capo della security Joe Bindon: sono accusati di aver picchiato a sangue un dipendente del promoter Bill Graham, reo di aver ripreso il figlio di Grant che aveva staccato una targhetta del gruppo nel camerino. Poi c’è la tragedia: a luglio un virus misterioso uccide il figlio di Plant, Korac. Il cantante, Bonham e Cole partono immediatamente per l’Inghilterra e i rimanenti concerti del tour vengono cancellati.

Foto via: www.relics-controsuoni.com

A fatica, alla fine del 1978, la band torna in sala per IN THROUGH THE BACK DOOR. Page è in cattive condizioni e forse anche per questo cresce il ruolo di Jones, che inonda di tastiere l’album. Nel settembre del 1980 si comincia a preparare un nuovo tour americano. Bonham, che allora ha da poco mollato l’eroina ma continua a bere tanto e ingurgita Motival, un potente ansiolitico-antidepressivo, non è entusiasta di tornare negli Stati Uniti. L’ultimo giro è stato un disastro e poi ci sono le partite legali ancora aperte per i fatti di Oakland.

Il 25 settembre, comunque, sono tutti nella villa di Page a Windsor. Il batterista arriva alticcio e non si ferma. Quella sera si addormenta e non si sveglia più. A trovarlo sono Jones e Benji Lefevre, il nuovo tour manager della band – Cole è stato fatto fuori per la sua dipendenza dall’eroina e proprio nel giorno in cui scompare il suo antico complice, per un errore dei giudici è sbattuto in carcere a Roma con l’accusa di avere avuto una parte nella strage della stazione di Bologna. Un mese dopo, l’inchiesta sulla morte di Bonham rivela che in dodici ore Bonzo si è scolato 40 shot di vodka uno dietro l’altro e non li ha retti. Per la band è la fine. Senza Bonzo, non è proprio il caso di andare avanti. 

Questo articolo è tratto da «Classic Rock» n. 6 Speciale 50 batteristi, disponibile in digitale sul nostro store online.

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