Tim Buckley: la breve vita di un genio del rock

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Nove album in studio e 28 anni di fulminea esistenza incorniciano il nome sacro di Buckley, conosciuto ai più come padre del celebre Jeff, ma lui stesso genio di un canto infuso di folk, jazz, country e psichedelia in una combinazione rivoluzionaria. Conosciamolo meglio. 

Tim e Jeff Buckley condividono lo stesso sorriso, la stessa espressione fanciullesca e quella magica voce che in pochi possono solo tentare di emulare. Purtroppo, hanno condiviso anche un'esistenza fulminea e una morte precoce. Li accoumuna il profetico numero 29, che per Tim fu un giorno del giugno 1975, mentre per Jeff del maggio 1997. Ma, mentre il brillante cantautore di GRACE fu inghiottito misteriosamente dalle acque del Wolf River, il padre si spense con una fatale iniezione di eroina. Quella invitante, ma tembile droga a cui non cedeva il braccio da due anni e in cui ricadde in un momento di fragile debolezza. Così oggi il nome di Tim Buckley è legato a quello del suo successore ed erede Jeff, ma forse in pochi conoscono la storia dell'uomo che rivoluzionò il canto negli anni Sessanta

In quel peculiare frangente culturale, cullato dalla speranzosa California, Tim si fece notare come cantante folk, cresciuto con lo stile di Bob Dylan, Tim Hardin e Fred Neil. Fu il batterista dei Mothers Of Invention di Frank Zappa, Jimmy Carl Back, a fare il suo nome al manager della band, Herb Cohen, che lo condusse tra le braccia dell'Elektra Records, accanto al futuro produttore dei Doors, Paul Rotchild. Una scelta vincente, che porta Buckley a pubblicare il suo debutto nel 1966, TIM BUCKLEY. Qui il cantautore ha solo 19 anni ed è l'anno che accompagna la nascita di suo figlio Jeff, di cui tuttavia non si cura per dedicarsi alla sua carriera nascente. Paradossalmente, i due si riavvicineranno solo in prossimità della morte di Tim. Poi arriva il 1967, anno che sancisce il suo primo capolavoro, GOODBYE AND HELLO con una delle canzoni più rappresentative del suo eclettismo, Phantasmagoria in Two

Qui comincia ad affinarsi quello stile unico che troverà la sua apoteosi in STARSAILOR (1970), dopo la chiusura con la Elektra. Nel frattempo Buckley incide altri tre album e la sua firma diventa sempre più sfacettata e particolare. Perché nessuna sua canzone è omogenea, ma avanza un'ibridazione di stili e un andamento sinuoso della voce, limpida, pulita, ma sempre sperimentale. Non sono molti coloro che hanno osato così tanto, in virtuosismi e funambolici giochi vocali dove tutto è permesso, ma sempre all'insegna di un'arte elegante e sopraffina, permeata sul sofisticato timbro del cantautore. E il fedele chitarrista di Buckley, Lee Underwood, descriverà così una rivoluzione: 

Tim fece per la voce ciò che Hendrix fece per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono.

Un'affermazione potente, testimoniata dall'incredibile vena performativa di Buckley. Quest'ultimo non comunica solo con le parole, ma tocca l'animo con una profondità umana e una tale emozione da avvolgere lo spettatore in un'intimità ipnotica. In questo sta l'abbandono di Buckley, che i maligni hanno attribuito alla sua dipendenza dall'eroina. Quest'ultima è un fattore importante della sua esistenza, poiché ritorna nel momento più debole per Tim. Nel 1970, infatti, STARSAILOR viene accolto in maniera controversa dalla critica e si dimostra un flop commerciale. Un brutto colpo per Buckley, che si prende due anni di pausa. 

Ma i prodotti successivi sono altrettanto poveri di largo apprezzamento. Lentamente la stella di Buckley si spegne nell'aura simbolica di un genio incompreso. Così, nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1975, il cantante riprende in mano l'eroina, con una dose fatale per un soggetto pulito da diverso tempo. Venne trovato nella sua casa di Santa Monica e da quel giorno, la sua immensa eredità artistica passò nelle mani di suo figlio Jeff, che tenne alto il nome del padre a tal punto di oscurarlo. 

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