Franco Mussida racconta la PFM, Faber, il prog

de andre pfm

La sua chitarra, sia acustica sia elettrica, è uno dei caratteri distintivi del suono della PFM e, di conseguenza,del rock italiano in generale.

Testo di Michele Merenda | Articolo tratto da «Classic Rock» speciale n.2, disponibile sul nostro store online.

Incontrare faccia a faccia un personaggio come Franco Mussida non è cosa di tutti i giorni. Incontrarlo per caso nelle strade di Malfa, uno dei tre comuni dell’isola di Salina (il cuore verde delle Eolie), è ancora più improbabile. Eppure è accaduto proprio questo. La vita è fatta di incontri (apparentemente) casuali. E da quello con Mussida è nata una discussione che alla fine si è dimostrata essere un autentico fiume.

In questa intervista, che forse va oltre i classici parametri, Franco Mussida parla di sé, di alcuni retroscena storici, del rapporto artistico e umano con De André, oltre a dare una risposta propria a interrogativi a cui sembra difficile rispondere. Cos’è l’Arte? E soprattutto... cos’è davvero quel fenomeno chiamato “Prog”?

Premiata Forneria Marconi, prima I Quelli e I Krel

Ci sono dentro praticamente da quando esiste. A metà anni Sessanta io e Franz Di Cioccio ci siamo incontrati casualmente tramite un cantautore, Gian Pieretti, che cercava un gruppo. Ne trovò uno già fatto, in cui c’era appunto Di Cioccio, però mancava loro il chitarrista. Avevano un sassofono, ma cercavano chi potesse suonare la chitarra. Io non ho mai capito come siano potuti risalire a me! Stavo da tutt’altra parte della città, alla periferia nord, e quando mi arrivò la telefonata, non sono riuscito a comprendere chi fosse la fonte della segnalazione.

Probabilmente in quel periodo non c’erano molti chitarristi “moderni”, che facessero un certo tipo di musica, e poi c’è da dire che ho cominciato a suonare in giro già a 14 anni, quindi mi ero fatto un certo nome. Incontrando Franz, sono nati I Grifoni e poi I Quelli. Ho iniziato a scrivere subito. Devo dire che mi ritengo più uno scrittore che un chitarrista. Anche se poi molti hanno apprezzato maggiormente il mio virtuosismo, la chitarra mi è sempre servita più che altro per scrivere.

Foto di Orazio Truglio

Amico Fragile e improvvisazione

Sono sempre stato un improvvisatore, come quando facciamo Amico fragile di De André. L’improvvisazione è una composizione in tempo reale, quindi improvvisa chi compone. I tre assoli di quel pezzo, suonato nel famoso concerto con Fabrizio De André, erano del tutto improvvisati. Molto spesso non ci si rende conto dell’importanza per chi suona d’interpretare e di vivere in profondità le emozioni, che sono le intenzioni prime di qualsiasi musicista. Ciò che deve essere comunicato in pieno è il contenuto emozionale, tutto il resto viene decodificato dal linguaggio.

Quello in questione è un assolo drammatico, perché descrive una situazione drammatica. Fabrizio mi guardava quando lo suonavo e io guardavo lui, perché impersonavo l’amico fragile, in uno stato di sofferenza. Tant’è vero che molti anni dopo mio figlio, sentendolo, mi disse: «Papà, ma perché non lo suoni sempre? È bellissimo!». A parte il fatto che ogni volta perdo tre etti per riuscire a entrare in quello spirito lì... ma ogni volta bisogna anche re-inventare certe sensazioni e per farlo occorre rivivere determinate emozioni.

Le emozioni sono uniche perché vivono in un’immagine. Noi musicisti abbiamo la fortuna di dover rifare i nostri quadri in continuazione, e dobbiamo rifarli sempre in maniera diversa. Impressioni di settembre l’avrò suonata e cantata un migliaio di volte, l’ho anche scritta, e per non farla diventare un fatto meccanico ho bisogno sempre di un’immagine a cui far riferimento. Stesso discorso per Altaloma 5 till 9.

Tutta la mia vita è costellata di pezzi simili. Su STATI DI IMMAGINAZIONE c’è un brano che ha queste caratteristiche di drammaticità, si chiama Cyber Alpha. In quell’album, tutto strumentale, si passa dalla composizione sintetica e ispirata de Il sogno di Leonardo, con una melodia molto dolce, a una cosa invece completamente diversa. Ecco, lì dentro, tra questi due estremi, ci sono io. Che poi sono tutte cose che si ritrovano negli ultimi lavori che ho fatto da solo, quindi a prescindere dalla PFM. Musiche per teatro che hanno dentro di sé questi mondi: un po’ descrittivi da un lato ed estremamente liberi dall’altro.

Premiata Forneria Marconi

Carriera solista...

Non mi piace definirla “carriera”. Si tratta di un mio percorso musicale che comincia a svilupparsi in maniera autonoma nel momento stesso in cui esco dal gruppo e il gruppo finisce di lavorare. Stiamo parlando del 1985, quando nasce il Centro Professione Musica di Milano, che dirigo tuttora. Da lì parte un amore viscerale per la comunicazione musicale, che non è soltanto godere del fare musica o ascoltarla, ma entrare nel merito di ciò che provoca in noi l’esperienza del suono.

Da allora è iniziata tutta una serie di esperienze, come quella dei corsi musicali nel carcere di San Vittore – un mondo che è durato una quindicina d’anni. Sono cose che hanno orientato la mia strada, la mia storia. Nel 1993 è uscito RACCONTI NELLA TENDA ROSSA, che è un elaborato di tutto questo, poi tante altre situazioni con l’arte in generale e l’anno scorso ho iniziato a lavorare con il teatro, in una forma assolutamente fuori dalla norma.

Incontrare De André

Fu un bellissimo incontro, anche perché a me non piaceva assolutamente la musica che faceva e glielo dissi pure. Non riuscivo a sentire i suoi dischi, erano suonati male e arrangiati peggio Le sonorità erano terrificanti, a me interessava il suono e quindi le parole non riuscivo neanche ad apprezzarle. C’è voluto che ci mettessimo uno di fianco all’altro, a tre metri di distanza, registrando in diretta. Lì, mi sono goduto la pienezza non soltanto di un grandissimo cantante, ma anche di un grande intellettuale della nostra Repubblica. Una persona straordinaria.

pfm e de andré

Con Faber dal vivo

Lo abbiamo rivisto, per chiudere il nostro “carmico” incontro con Fabrizio. A suo tempo lo avevamo registrato insieme, ma gli arrangiamenti non li avevamo fatti noi, erano di Giampiero Reverberi. Il quale ci metteva davanti le partiture e noi, in maniera molto ligia, dovevamo stare alle regole. Quell’album aveva in sé delle potenzialità straordinarie dal punto di vista della musica inespressa e allora abbiamo rispettato in maniera rigorosa la melodia (tranne uno: Laudate Domini, che in origine era solo un coro) e abbiamo rivestito il tutto con altri “mondi”.

de andre

Che prog sia

Al di là del termine, progressive, mi piace parlare di corrente artistica. Tra le varie correnti artistiche popolari, che quindi hanno una radice popolare, c’è poi quello che i giornalisti hanno chiamato progressive, il cui termine risponde a un’esigenza di codificazione. I musicisti (perlomeno io!) erano perfettamente consapevoli di far parte di una corrente ben precisa, anche perché era estremamente difficile non esserlo. Tutto attorno il mondo era diverso! Non è che non esistessero i pezzi pop: c’era Caterina Caselli che imperversava, c’erano Mina, Don Backy, Al Bano... c’era Battisti. C’erano tutte queste persone che ci ricordavano come la canzone popolare fosse tutt’altra cosa. Ma noi non facevamo canzone popolare.

Dal 1970 al 1978 abbiamo lavorato in un ambito completamente diverso, in cui le strutture risentivano di tanti linguaggi. Strutture e linguaggi, quindi, si fondevano in maniera molto libera. Siccome questo nasce dalla natura popolare, non nasce dal jazz, non si poteva chiamare fusion. La stessa cosa, riferita al jazz, è stata chiamata fusion; questa è stata chiamata progressive perché tutto, anche il jazz, vi è rientrato e quindi pure gli elementi improvvisativi. Anche se alcuni ne hanno fatto una versione più “barocca”. Non a caso, secondo me, noi siamo il fenomeno più internazionale, proprio perché abbiamo inglobato tante più cose, abbiamo aggiunto tante più “spezie”, abbiamo fatto un quadro ancora più ricco.

Il progressive, o quantomeno quel tipo, era un mondo in cui struttura, linguaggio e immaginazione, quindi anche testi, avevano un modo di realizzarsi completamente diverso rispetto alla struttura chiamata comunemente canzone. C’erano bra-ni che avevano quattro-cinque canzoni o forme di composizioni legate tra loro che non c’entravano assolutamente niente l’una con l’altra ma che, allo stesso tempo, entravano tra loro perfettamente. Ed erano autentici viaggi. Erano le suites, viaggi in cui si partiva in un modo e si arrivava in un altro completamente diverso, passando da altre cose, che non erano incompatibili! In una suite c’erano magari cinque pezzi da sviluppare, tutti belli.

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Classic rock speciale n.2 Prog | Sprea Editori | Copertina
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