Alessandro Staiti
Il termine “punk” è stato strettamente associato a un movimento culturale e musicale che ha avuto origine nella seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, la sua rilevanza e il suo significato sono stati oggetto di dibattito nel corso degli anni. Ecco quattro motivi per cui il termine “punk” potrebbe non avere un senso oggi:
Antonio Bacciocchi
Dileggiato, spernacchiato, ormai da tempo musealizzato, integrato, omologato, digerito, il Punk (inteso come genere musicale ma anche come appartenenza esistenziale) continua a resistere nell’immaginario collettivo nella sua veste minacciosa, alternativa, antagonista, disturbante. E dire che i Sex Pistols, gli esponenti più autorevoli – piaccia o meno – dell’ambito, misero fin da subito in chiaro (1978) che la loro (presunta) “rivoluzione” era in realtà “la più grande truffa del rock ’n’ roll”. A chi era in età già senziente, alla fine degli anni Settanta, quella strana onda che arrivava da Inghilterra e Stati Uniti magari non faceva tanto paura (in Italia, in particolare, avevamo problemi più gravi e si tremava per altre minacce) ma un po’ inquietava, così inafferrabile, politicamente scorretta e sguaiata, musicalmente antitetica a tutto quello che era istituzione artistica (anche nelle frange alternative, con le loro regole spesso più rigide di quelle ufficialmente accettate e riconosciute). Le case discografiche e il tanto osteggiato “sistema” s’impossessarono fin da subito del tutto (è utile ricordare come la stragrande maggioranza delle punk band della prima ora firmarono immediatamente per le grandi major), lo fagocitarono, trasformandolo nell’ennesimo prodotto da vendere e con cui guadagnare, facendolo diventare uno dei tanti generi, una moda, una tendenza, ben gestita per trarne profitto. Paradossalmente quella che doveva essere, fedele alla sua essenza, una fiammata che si estingueva subito, continuò a bruciare. Sciolti i grandi nomi ne arrivarono altri e poi altri ancora. Si chiamò post punk, hardcore, pop punk e in mille altri modi ma passavano gli anni e in ogni angolo del mondo un ragazzo o una ragazza hanno continuato a trovare in quei suoni, in quei testi, in quei vestiti, in quel modo di porsi nei confronti di una società e di un modello di vita sempre più asettico e normalizzato, una modalità espressiva, un senso di appartenenza, un’identità. Proprio come cantava Johnny Rotten nel retro del 45 giri Anarchy In The UK, novembre 1976: “I wanna be me”, voglio essere me stesso. Da allora le cose non sono cambiate, sono anzi peggiorate e parecchio, l’auspicata anarchia in Inghilterra non è arrivata e in nessun altro luogo del mondo. Ma ogni giorno da qualche parte ci sarà un giovane o una giovane o, perché no?, anche qualche “meno giovane”, che in quelle parole e in quei suoni troverà un significato e uno stimolo per andare avanti o per voltare pagina. Rendendo in questo modo il Punk attuale, moderno, sempiterno.
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