UNDERGROUND made in USA | Prog

Testo: Giovanni Loria

Il viaggio continua

La scena di cui parliamo è minore sovente soltanto per fama, perché, senza voler tracimare nel trionfalismo, ci sono dei gruppi e dei dischi di altissima qualità. D’altronde qualunque ascoltatore minimamente smaliziato sa che le vendite non stabiliscono la grandezza di un musicista, ma al massimo la profondità del suo conto in banca! Non è neppure il caso di rammentare che il sottotitolo di questa rivista recita in copertina “Suoni progressivi e dintorni, contaminazioni e orizzonti aperti” per spiegare la presenza fra queste pagine di tutta una serie di band che con il prog, nel senso classico del termine, potrebbero non avere strettamente a che fare: potrei infatti puntare sui “dintorni”, sulle “contaminazioni” e soprattutto sugli “orizzonti aperti”, ma la verità è che molti di questi gruppi hanno declinato la loro aderenza ai dettami del rock duro in maniera ibrida, meticcia, mescolando influenze apparentemente inconciliabili, per quello che, scusate l’ennesima ripetizione, rappresenta lo spirito progressivo più autenticamente dell’ennesimo manipolo dedito ad arrangiamenti sinfonici dal fiato corto. E consentitemi comunque, al di là delle etichette, di omaggiare, seppur in chiave postuma, gruppi che senza pretendere di aver scritto, o reinterpretato, la storia del rock, hanno comunque regalato opere godibili, ricche di spunti piacevoli quando non emozionanti o persino sorprendenti. Se davvero scrivere rappresenta, come credo, un servizio, e non una sterile dimostrazione di arrogante autoreferenzialità, allora suggerire, e si spera invogliare all’ascolto di gioielli ricoperti troppo a lungo dalla polvere dell’indifferenza, è il servizio che in questi articoli cerco di dare; ricordando altresì che certi nomi sono “oscuri” solamente in Italia, che parliamo in alcuni casi di gruppi dalla consistente discografia e quasi sempre affiliati a grandi case discografiche, che non essendo enti di beneficenza non pubblicavano un album per simpatia nei confronti di quei musicisti, ma perché anche loro ci avevano intravisto qualcosa di meritevole. Buona lettura, e soprattutto buon ascolto.

Head East

Raccontare le storie dell’hard rock meno conosciuto non vuol dire per forza spingersi troppo in là nei vortici dell’underground più nozionistico. Vi assicuro anzi che per gli appassionati del settore, questi pochi nomi di cui ci stiamo occupando, seppur quasi ignoti al grande pubblico, sono più vicini alla superficie che a una nicchia per iniziati un po’ snob. Indiretta conferma di ciò sta nel fatto che questa band dell’Illinois ha pubblicato ben sei dischi solamente nel corso degli anni Settanta, incidendo con continuità anche nel decennio successivo e rimanendo sporadicamente attiva ancora oggi, sempre arroccata attorno alla figura del tastierista e fondatore Roger Boyd. Mi viene spontaneo, per stile, provenienza geografica ed evoluzione, paragonarli a un’autentica leggenda del Midwest come i REO Speedwagon, e so che più di qualcuno storcerà il naso leggendo queste parole, perché i REO, almeno in Italia, sono moderatamente conosciuti solamente per qualche godibile successo radiofonico in odore di rock FM nei primi Eighties, ma in troppi ignorano che prima erano stati latori di un pugno di album notevoli, nel solco di un hard rock a tratti libero e selvaggio (vedasi il debut omonimo del 1971 o il colossale doppio dal vivo di sei anni dopo). Con le dovute proporzioni di fama e talento, gli Head East ne sono la versione mignon, e quanto meno le prime opere sono caldamente consigliate ai cultori del rock al calor bianco. Nascono nel 1969, ma solamente un lustro più tardi raggiungono la proverbiale quadratura del cerchio, attraverso una line-up stabile che consta, fra gli altri, del talentuoso frontman John Schlitt e di un chitarrista di classe quale Mike Somerville. Debuttano nel 1975 con FLAT AS A PANCAKE, che viene pubblicato privatamente ma vende così bene da meritarsi un’immediata ristampa, con copertina differente, da parte di una major come la A&M. Siamo di fronte a un hard rock melodico ma non certo privo di vigore, nel quale appare praticamente ogni tipo di tastiera esistente, anche se la chitarra resta l’ingrediente principale. Il singolo Never Been Any Reason ottiene un grande successo e una costante programmazione radiofonica, ma l’epica Jefftown Creek è il vero punto di forza del disco. Il secondo GET YOURSELF UP (1976) vende benino anche in Gran Bretagna, il terzo GETTIN’ LUCKY (1977) ha un lieve calo d’ispirazione, ma i successivi HEAD EAST (1978) e A DIFFERENT KIND OF CRAZY (1979) riportano Boyd e compagni sulla retta via. Gli anni migliori vengono suggellati da un ottimo doppio album dal vivo, HEAD EAST LIVE (1979), che non ne modifica lo status di band inesorabilmente minore confermandone però anche il talento. Con l’arrivo degli anni Ottanta gli Head East perderanno i pezzi (Schlitt diventerà il cantante dei Petra, uno dei gruppi cristiani più importanti degli USA) e vireranno verso un AOR manieristico ma sempre gradevole…

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