Mondi paralleli: i JAPAN | Prog

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Nel corso del tempo i Japan hanno attraversato più fasi, sia come band che come singoli componenti. In questo articolo tratto dal nuovo numero di PROG, ripercorriamo la loro storia attraverso i loro album.
Testo di Marco Olivotto, tratto da PROG n°56

Nel corso del tempo i Japan hanno attraversato più fasi, sia come band che come singoli componenti. In questo articolo tratto dal nuovo numero di PROG, ripercorriamo la loro storia attraverso i loro album.

La prima metà degli anni Settanta è considerata l’età dell’oro del rock progressivo britannico, anche se le radici del genere affondano nella parte finale del decennio precedente. Tra il 1970 e il 1975 vengono pubblicati album considerati a ragione pietre miliari, non solo del prog, ma della musica rock in generale. I titoli sarebbero moltissimi, e ricordarli a chi legge una rivista come «Prog Italia» è del tutto inutile.

GLI INIZI

Nel 1976 i giovanissimi Japan firmano un contratto di management con Simon Napier-Bell, già manager degli Yardbirds e di Marc Bolan, colpito dall’aspetto e dall’atteggiamento di Sylvian: “David somigliava a Mick Jagger negli anni Sessanta incrociato con la Brigitte Bardot teenager e il giovane Elvis Presley con Jane Fonda adolescente”. Napier-Bell era anche un produttore di talento, e subito organizzò delle sessioni di registrazione per il gruppo, che aveva iniziato a suonare in pubblico con regolarità.

Nel 1977 i Japan partecipano a un contest organizzato dall’etichetta tedesca Ariola-Hansa, ma non vincono: trionfa una band chiamata The Cure, e il resto è storia. Nonostante ciò, grazie anche all’influenza di Napier-Bell, l’etichetta li mette comunque sotto contratto, mentre sono al lavoro sui brani destinati a confluire nel primo album. A questo punto, David e Stephen Batt diventano ufficialmente David Sylvian e Steve Jansen, non senza resistenze da parte della label, preoccupata dalla somiglianza dei loro nomi con quelli di due membri dei New York Dolls (il chitarrista Sylvain Sylvain e il cantante David Johansen).

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Le registrazioni del disco iniziano nello stesso anno, con la produzione di Ray Singer, che ha un background importante alle spalle grazie a collaborazioni con nomi come Shel Talmy (The Kinks, The Who) e Jimmy Miller (Traffic, The Rolling Stones).

L’album viene pubblicato nel marzo 1978, preceduto dal singolo Don’t Rain On My Parade, successo di Barbra Streisand, tratto dal musical Funny Girl del 1964. Lo stile musicale è un mélange di intenzioni punk e riferimenti al glam rock, con un uso abbastanza massiccio dell’elettronica che finirà per influenzare l’ondata successiva della new wave britannica, ormai imminente.

Al riascolto, impressionano due cose: la perizia strumentale dei musicisti, che si cimentano con arrangiamenti non lineari, e il timbro della voce di Sylvian, totalmente diverso da quello che conosciamo oggi. Considerando che l’età media dei membri si aggira intorno ai vent’anni, il risultato è notevole, anche se non arriva all’eccellenza. I riferimenti alla produzione più funky di David Bowie si sprecano, e questo smorza un po’ l’originalità generale: The Unconventional è esemplare in questo senso. Si avvertono però l’irruenza e la ruvidezza di una prima volta, e questo differenzia il lavoro dalle produzioni successive. Singer mette a segno un buon risultato, smussando quanto basta un sound ancora grezzo ma accattivante…

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