Giornalisti-mummia e algoritmi tiranni | Classic Rock

Nel 1980, intervistato da Paolo Bertrando per la prima, sfortunata edizione italiana di «Rolling Stone», Freak Antoni esprimeva la sua opinione sulla stampa musicale:
“Quelli che non sopporto sono i giornalisti furbi, quelli che capiscono tutto e ti impongono il loro capire; quelli che si sentono delegati (non si capisce da chi) ad interpretare la musica. Anche loro, in un certo senso, pensano e agiscono solo in funzione di un mestiere: cercano di perpetuare la loro funzione, come se gli desse fastidio chi vive la musica senza intermediari. Sono i giornalisti-mummia. Che ai tempi degli Skiantos sono venuti a spiegarci chi eravamo, e adesso vogliono fare lo stesso con tutti gli altri gruppi rock di Bologna”.

Quarantacinque anni dopo, i giornalisti-mummia sono un po’ acciaccati ma resistono stoicamente al loro posto, anche se la loro funzione non sembra avere più molto senso: oggi vivere la musica senza intermediari è divenuta cosa possibile. L’utopia dell’ascoltatore libero vagheggiata da Freak Antoni sembrerebbe essersi realizzata.

Basta un clic per poter accedere istantaneamente a qualunque disco, qualunque canzone, qualunque discografia. O meglio, basterebbe un clic per farlo. Ma siamo sicuri che un utente medio della rete sia in grado di sfruttare questa portentosa opportunità che gli viene offerta dalla tecnologia? Io francamente sono scettico.

Con le dovute eccezioni, il clic è un gesto pigro, una ricerca telecomandata, un atto passivo. Cosa si trova in rete? È sufficiente dare un’occhiata alle classifiche dei brani più cliccati per rendersi conto che la ricerca riguarda quasi esclusivamente le hit.

E quindi, la storia della nostra musica è piena zeppa di artisti straordinari e di dischi meravigliosi che oggi nessuno ricorda più, semplicemente perché le radio non fanno più quello che facevano quarant’anni fa, le riviste sono diventate una sorta di riserva indiana per nostalgici e gli espertoni dei negozi di dischi – ai quali una volta si poteva chiedere consiglio – non hanno più voce, perché i negozi di dischi sono quasi scomparsi dal panorama.

E quindi, l’informazione (e soprattutto il gusto musicale) delle nuove generazioni è affidata a un algoritmo. Ciò mi porta a pensare che forse si stava meglio quando si stava peggio, che i giornalisti-mummia non erano poi così male e che accettare qualche consiglio di ascolto non è poi così disonorevole.

A proposito, in questi giorni troverete in edicola un nostro speciale che passa in rassegna e mette in classifica 500 grandi dischi rock. Ne parliamo a pagina 8, ma una cosa posso anticiparvela qui: non lo abbiamo fatto usando l’algoritmo.

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Maurizio Becker

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