Of Mice & Men: la loro nuova sfida

Colpiti da una perdita importante, gli Of Mice & Men si sono rimboccati le maniche e hanno risposto alle avversità con DEFY, un disco duro e diretto

Come è noto, il cantante Austin Carlile è fuori gioco, a causa della sindrome di Marfan. Ne abbiamo parlato con il bassista Aaron Pauley, che ha dovuto farsi carico anche delle parti vocali.

È stata dura entrare nei panni di Austin? 
Noi cinque abbiamo fatto sempre tutto assieme. Siamo cresciuti assieme, eravamo vicini di casa. Dover pensare a un futuro senza Austin non è stato per niente facile. Da un punto di vista musicale, no, non è stato terribilmente difficoltoso, il difficile è stato capire cosa era meglio per un determinato pezzo, se usare un cantato in growl o uno più morbido e melodico. Ero già abituato a usare lo screaming anche nella mia band precedente, i Jamie’s Elsewhere; ho un background operistico che mi ha aiutato molto, ma Austin rimane insostituibile.

Come definiresti DEFY?
È un disco più pesante di COLD WORLD e anche di RESTORING FORCE. Ha radici profonde nel periodo in cui abbiamo iniziato. Ci siamo concentrati molto per  recuperare una certa anima, quella che faceva della nostra musica una cosa speciale e originale. Credo rappresenti per noi una ripartenza. Abbiamo perso un nostro membro essenziale del nostro gruppo, ma la band non è cambiata, la musica l’abbiamo sempre scritta tutti assieme. È per questo che abbiamo deciso di tornare anche alla grafica delle nostre prime copertine, utilizzando solo il nostro marchio: quell’artwork rappresenta quello che siamo, la nostra unità. Come all’inizio. Siamo una band molto unita e organica.

Ci parli della gestazione di DEFY?
È stato un lungo lavoro. Abbiamo iniziato a dicembre del 2016. A febbraio abbiamo registrato Unbreakable e Back To Me, perché volevamo farle ascoltare ai nostri fan, inserendole nella tournée estiva. Sono piaciute moltissimo e ci hanno anche portato molti nuovi fan. Abbiamo suonato in America fino a maggio, poi ci siamo fatti i festival europei. Non abbiamo mai smesso di scrivere durante il tour, registrando durante le pause dai live. Scriviamo suonando assieme, facciamo un sacco di pre-produzione, siamo molto old school in questo. Il rock’n’roll si è sempre basato sul suonare dal vivo. Quando sei da solo con i tuoi amici nel garage, tu sei la tua prima audience: quando ti diverti, anche gli altri si divertiranno.

Perché una cover dei Pink Floyd?
Quando siamo andati in studio, eravamo molto preparati. Avevamo prenotato per sei settimane e in meno di quattro avevamo fatto il grosso del lavoro. A quel punto, il nostro produttore ci ha suggerito di fare qualcosa per rilassarci, così è nata la canzone che chiude il disco, If We Were Ghosts, una downtempo che possiamo considerare una ballata. Poi è arrivata la cover dei Pink Floyd. Andando in studio con la macchina di Alan Ashby stavamo ascoltando THE DARK SIDE OF THE MOON; quando si è trattato di registrare una cover, quasi per scherzo abbiamo deciso di fare Money. Ci è venuta talmente bene che l’abbiamo inserita  nel disco!

Leggi l’intervista completa nel numero 63 di Classic Rock Italia, in edicola dal 26 gennaio.

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