13 febbraio 2019
Di Giovanni Davoli
Carl Palmer e i Goblin una quarantina di anni fa avrebbero riempito il Palasport, da soli; oggi, insieme, devono accontentarsi di un Teatro Parioli solo pieno A METÀ. Non ha certo aiutato una campagna pubblicitaria modesta e un orario d’inizio (9.30) non adeguato per un doppio concerto di più di 3 ore: ad ascoltare “Profondo Rosso” all’una di notte, non eravamo rimasti in tanti, ma eravamo soddisfatti. Abbiamo goduto di un Carl Palmer ancora in gran forma alla sua età e che non pare aver perso molto della velocità, potenza e precisione dei tempi d’oro. Accompagnato inoltre da due giovani mostri dei loro strumenti: Simon Fitzpatrick al basso 6 corde e al Chapman Stick e Paul Bieletowicz alla chitarra, con molti effetti e distorsioni.
Si tratta di rifare, con questi mezzi, un repertorio che era in origine dominato dalle tastiere, e l risultato non può che essere diverso: più duro, quasi metal a tratti, con molto spazio per i virtuosismi dei tre. Si aggiunge alla voce Lino Vairetti degli Osanna, in un paio di pezzi. Vairetti punta meno sulla potenza vocale e sembra quasi recitare il testo. Superato lo shock di sentire Karn Evil (“Welcome back my friends…”) cantata con un’inevitabile accento italiano, il risultato resta pregevole. Altra piccola chicca: “Lucky Man” con Vairetti alla voce e Simonetti alle tastiere: un momento forse non tra i piu musicalmente significativi del concerto, ma di grande importanza per il tastierista romano la cui vita cambiò grazie al suono di Moog di Keith Emerson.
In generale, Palmer si è dato con generosità, come ai tempi migliori e ci ha regalato anche un lungo (forse troppo!) assolo, non risparmiandosi sudore e fiatone. Non resta che ringraziarlo per avere voglia, a 68 anni, di andare in tour a portare questa musica immortale per audience a volte così ristrette.
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