Arrivò con una copertina bianca candida e un ‘The Beatles’ a rilievo, design del guru della pop-art Richard Hamilton. Era lo shock del nuovo, eppure in un tempo di tumulti politici i Beatles si ritirarono in un mondo ermeticamente sigillato.
Dei 30 brani del doppio, solo 14 videro i quattro suonare assieme, con canzoni che spaziano dall’assalto sonoro di Back In The U.S.S.R. e HelterSkelter di Paul McCartney fino al kitsch vaudeville di Wild Honey Pie e Martha My Dear, e alla storia finto country del donnaiolo Rocky Raccoon. Lennon aggiunse livelli più oscuri: Happiness Is A Warm Gun e Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey con velati accenni all’eroina, mentre Revolution 1 chiariva che non aveva intenzione di diventare un martire dell’anarchia, preferendo la direzione avant-garde di Revolution 9.
Quest’ultima, gli 8 minuti e 22 secondi più straordinari dei Beatles, un collage delirante di tape loops, effetti sonori parlati, grida e gorgoglii, divise il pubblico. Non era She Loves You. E non erano più i Fabs. I contributi di George Harrison spaziarono da While My Guitar Gently Weeps (con Clapton alla chitarra) e la mistica Long, Long, Long all’incubo orwelliano Piggies e alla sottovalutata SavoyTruffle.
Il recupero di Ringo Starr della canzone hillbilly del 1962 Don’t Pass Me By e la filastrocca orchestrata da George Martin Good Night – il finale più perfetto – erano tipicamente sottotono. Il produttore Martin aggiunse i Mike Sammes Singers, già apparsi su I Am The Walrus.
A livello di pura ambizione, THE BEATLES ha oscurato tutto il resto della loro produzione, al punto che è stato ritenuto da alcuni il miglior disco mai realizzato. Fu anche il suono dell’imminente rottura – il Disco Bianco che li portò ancora più vicini al Buco Nero.
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