73 anni e non sentirli. Ronnie Wood dei Rolling Stones da qualche anno è rinato, da quando è riuscito a dire di no alla dipendenza. Nei momenti difficili, il supporto di Mick Jagger è stato importante.
C’è qualcosa che ti ha sorpreso delle cose dette da Mick Jagger o Charlie Watts nel documentario di Mike Figgis Somebody Up There Likes Me?
È stato carino ascoltare Charlie dire che Mick non ha mai perso la fiducia in me. Mi sono detto: “Che bello!”. Ho ripensato al passato, e mi sono reso conto che Mick mi ha aiutato tantissime volte quando cercavo di rimettermi in riga. Mi ha sostenuto moltissimo nella mia riabilitazione.
Ammettere di essere dipendenti è di per sé una cosa importante, ma come si arriva a curarsi?
È un percorso individuale. Ti rendi conto che: “Mio dio, se continuo questa merda mi ammazza”. Fondamentalmente, è solo buon senso. Certi non hanno un allarme che li avvisa, e vanno avanti finché il loro organismo non va a pezzi. Io volevo smettere prima che mi succedesse. Farlo è stata una decisione puramente egoistica. Ho smesso per salvarmi la vita (ride).
Essere uno Stones è come vivere in una specie di bolla, un universo parallelo staccato da tutto, in cui nessuno deve mai invecchiare?
Intorno ai trent’anni, il mio cervello ha smesso di dirmi: “Stai diventando vecchio”. Mi ricordo i compleanni a 40 anni, 50, delle pietre miliari, ma pure allora mi dicevo: “Ehi, mica ho 40 anni…”. E ora? 72? Ma scordatelo!
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