Qualcuno ha avuto il coraggio di affermare che il doppio album che chiude l’avventura di Peter Gabriel con i Genesis è stato uno dei motivi per cui è nato il punk. In realtà, l’energia che scaturisce dai vari brani precorre i tempi, andando proprio nella direzione che seguirà da lì a breve la scena musicale inglese. La traccia iniziale ci introduce al concept di Rael e rivela il fascino che Gabriel provava in quel periodo per la città di New York. Mentre il resto della band lavorava alla parte musicale, Peter se ne stava da solo in un’altra stanza a modellare la storia.
Amavo New York. Era davvero seducente, magica. Nonostante il punk non fosse ancora stato inventato, ho pensato che fosse arrivato il momento di raccontare le gesta di un personaggio della strada, piuttosto che dell’ennesimo gentiluomo inglese.
Il contrasto tra il pianoforte barocco di Banks e il basso sporco e pulsante di Rutherford è realmente interessante. Il brano si conclude con una
citazione di On Broadway dei The Drifters: la discesa di Rael ha inizio...
La difficile gestazione del “concept” – oltre alla tensione che si era creata all’interno della band, bisogna tenere conto del fatto che Peter era alla prese
con la nascita problematica della prima figlia e Hackett con la fine del primo matrimonio – non impedì ai Genesis di dare vita a uno dei loro capolavori.
In The Cage cattura alla perfezione il panico crescente di Rael, bloccato in una prigione di stalattiti e stalagmiti. Il battito cardiaco è scandito dal pulsare
dell’organo di Banks, mentre la musica si avvolge intorno alla claustrofobia del protagonista. In un certo senso, il testo potrebbe essere una metafora delle
sensazioni provate da Gabriel in quel periodo e del suo desiderio di libertà artistica, che avrebbe raggiunto con l’inizio della sua carriera solista.
“Volevo che tirassimo fuori qualcosa di più tosto”. Gabriel parlava così a proposito
di THE LAMB, e Back In N.Y.C. è lì a dimostrare come l’icona multicolore del progressive rock potesse alla bisogna trasformarsi in un rabbioso punk. In questo caso assistiamo a un flashback che ci riporta a quando Rael era più giovane e partecipava alle lotte tra gang rivali, scorrazzando per le strade di Manhattan, prima che il suo cuore peloso venisse estratto e ripulito con un rasoio.
La sequenza di note prodotta dal synth di Banks è ipnotica e incornicia una performance viscerale da parte di tutta la band, caratterizzata da una intensità senza pari. Anche Gabriel si lascia andare, dicendo una parolaccia (merda) e nei concerti dell’epoca erano ancora più scatenati.
In un album frenetico, che parla di violenza e masturbazione, ci vuole un momento in cui tirare il fiato. Carpet Crawlers è la ballata più emozionante che i Genesis abbiano mai realizzato.
Tutto gira intorno all’avvolgente arpeggio di tastiera di Banks, ma il genio sta nell’essere riusciti a mantenere l’arrangiamento abbastanza scarno, in modo
da permettere alla canzone e alla melodia vocale sussurrata del ritornello di
emergere pienamente. Gabriel non ha mai voluto spiegare il significato del testo,
limitandosi a fare riferimento alla religione, alle suppliche e alla preghiera
islamica. Il mistero rimane.
Stranamente Banks ricorda che si è trattato della traccia più spontanea di THE LAMB: lui e Rutherford scrissero tutti gli accordi e li diedero a Peter. L’alchimia ha dato vita a una vera a propria cattedrale sonora.
Ancora una volta sono i miti greci a ispirare il testo: le Lamia nascono come
mostri mangia-bambini, ma si evolvono nel tempo in fantasmi che seducono
gli uomini per poi divorarli. Il contrasto che ne scaturisce è evidente: da un lato
la mitologia classica studiata sui banchi di scuola, dall’altro la cupezza del testo
evidenzia come i Genesis, o forse il solo Gabriel, si stessero progressivamente
allontanando da ogni tipo di deriva romantica.
Sesso e morte. Rael capovolge la situazione e succhia l’anima delle Lamia dopo averle fatto assaggiare il suo sangue. Anche nei primi dischi solisti di Gabriel è presente questa vena macabra.
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