Allergici a ciò che sconvolgeva i ritmi tradizionali, e soprattutto timorosi del dilagare della musica d’oltreoceano in Italia, i fascisti designerano come loro bersaglio il jazz. Nonostante alcune opinioni contrastanti a riguardo nelle stesse file dei fascisti, in linea generale la musica che faceva scatenare sulla pista da ballo i soldati americani aveva finito per contagiare i giovani italiani, e questo non era visto di buon occhio.
Il canale principale era stato il cinema: attraverso i film americani il jazz (ma più precisamente il ragtime) aveva conquistato con il suo ritmo sincopato le orecchie nostrane: si erano formate così le prime orchestre jazz (Blue Star di Pippo Barzizza, Orchestra Angelini…).
Il jazz occupava un primato nelle sale da ballo italiane che non poteva essere in linea con le idee mussoliniane: cedere il posto a un genere non italiano, non tradizionale, voleva dire mettere un’altra nazione prima della propria patria. Il regime tentò di snaturare il jazz proponendone una versione italiana, il “gez”. Quando entrarono in vigore le leggi razziali del 1938, la battaglia contro il jazz divenne una questione di stato molto aspra. Il genere venne considerato “una delle armi giudaiche più forti e più sicure”.
Come contrastare però il dilagare del jazz, che sembrava inarrestabile? Il regime arrivò a chiudere i locali in cui si poteva ballare, a proibire la musica americana (ma bastava tradurre il titolo di una canzone in italiano per poterla eseguire senza ripercussioni).
Per quanto sembri curiosa la censura del jazz, sprovvisto di testi e quindi teoricamente di un veicolo propagandistico forte come quello linguistico, comprendiamo facilmente come la sua diffusione incontrollabile, che permetteva a un livello intimo e viscerale di sentirsi liberi, aperti verso altre culture, amanti della musica senza confini, potesse essere un vero problema per il regime fascista, che solo di mura e limiti viveva.
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