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Il 1966 in 12 dischi psichedelici

La nostra redazione ha selezionato più di 100 dischi del rock psichedelico nello speciale «Psichedelia». Eccone 12 imprescindibili direttamente dal 1966.

The Beatles, REVOLVER, 1966

L’opera con cui i Fab Four dimostrano che un altro tipo di musica è possibile: “progressiva”, pop e psichedelica allo stesso tempo, sia a livello testuale che per l’uso di strumenti inusuali e di avanzate tecniche sonore (loop, nastri all’incontrario). Se è Paul, immerso nell’avant-garde, a fare da traino (l’orchestrale Eleanor Rigby, la trasognata Here There And Everywhere), la parte del leone rivoluzionario la gioca John (l’allucinatoria Tomorrow Never Knows, la straniante She Said She Said). E anche George (l’orientaleggiante Love You To) e Ringo (la filastrocca in trip da Lsd Yellow Submarine) non stanno a guardare. Dopo REVOLVER nulla sarà più lo stesso. Non solo per i Beatles ma anche – e soprattutto – per il resto del mondo dotato di due orecchie funzionanti.

Francesco Donadio

Blues Magoos, PSYCHEDELIC LOLLIPOP, 1966

Anche se nel 1966 il termine “psichedelico” non era ancora popolarissimo, i Blues Magoos lo inserirono addirittura nel titolo del loro debutto, brillante alchimia di folk-blues, garage-punk e beat-pop segnato dalle melodie insinuanti del Farfisa, da chitarre tra l’aggraziato e l’acido, da centrate e seducenti fantasie canore. In apertura di una scaletta di dieci episodi che contiene per lo più cover opportunamente personalizzate spicca la trascinante, ossessiva We Ain’t Got Nothin’ Yet che dei cinque newyorkesi fu l’unico successo, ma il resto del programma si rivela variegato, variopinto e talvolta (quasi) altrettanto convincente. Il sound non era ancora quello del 1967, ma il 1965 era già alle spalle.

Federico Guglielmi

The Byrds, FIFTH DIMENSION, 1966

Quello che sulla carta poteva sembrare ai contemporanei un fallimento annunciato, a causa della fuoriuscita di Gene Clark avvenuta pochi mesi prima, è a tutti gli effetti divenuto uno degli album più rappresentativi del gruppo e un caposaldo della psichedelia. Va detto che il singolo Eight Miles High – quasi immediatamente bandita dalle radio per presunte allusioni alla droga, così come la title-track, 5D – vibra ancora della creatività dell’autore dimissionario, ma il lavoro di Crosby, McGuinn e compagni (nonostante le 4 cover) è tutt’altro che di secondo livello; inoltre, per la prima volta nessun Dylan da ricantare, sostituito da una voglia di sperimentazione, effetti di studio, raga indiano e viaggi lisergici, senza però rinunciare all’amore per la forma canzone.

Luigi Abramo

Count Five, PSYCHOTIC REACTION, 1966

Più che alla psichedelia in senso stretto, poi frequentata senza troppa convinzione in qualche singolo, in questo loro unico LP intitolato come la favolosa canzone – un manifesto programmatico – che a 45 giri era salita addirittura fino al n.5 della classifica USA, i Count Five si destreggiano tra beat in sintonia con Yardbirds e Who (omaggiaticon ben due cover, My Generation e Out In The Street) e garage-punk non particolarmente selvaggio. Tra graffianti r’n’r, echi folk e qualche affondo più visionario (Pretty Big Mouth, Peace Of Mind), il disco riflette piuttosto bene il clima del 1966 e le doti del quintetto californiano, un po’ troppo tenute a freno in un sound che avrebbe potuto e dovuto osare di più.

Federico Guglielmi

Donovan, SUNSHINE SUPERMAN, 1966

Per scrollarsi di dosso la scomoda etichetta di “Bob Dylan inglese”, Donovan trasforma il suo folk in un melange di psichedelia, blues, sitar, jazz e musica medievale, grazie all’ispirato lavoro del produttore Mickie Most. Uscito solo negli USA nel settembre 1966 – a ridosso di poche settimane da REVOLVER – SUNSHINE SUPERMAN è forse il suo capolavoro: la title-track è obliqua grazie alle chitarre di Jimmy Page, mentre The Trip e The Fat Angel(dedicata a Mama Cass) ondeggiano lisergiche sul sitar di Shawn Phillips. Season Of The Witch diventa l’inno psichedelico inglese (tanti ne faranno una cover), lanciando Donovan come eroe del flower power.

Riccardo De Stefano

Bob Dylan, BLONDE ON BLONDE, 1966

Il terzo capitolo della trilogia elettrica di Dylan è uno dei più grandi capolavori della Musica. L’atmosfera alticcia di Rainy Day Women No. 12 & 35 ci fa entrare in un mondo febbrile, allucinato e poetico, che nel corso di 72 minuti, su due dischi, si cristallizza nelle atmosfere gotiche di Visions Of Johanna, nel cinismo di Sooner Or Later, nel romanticismo sensuale di I Want You, nella weirdness di Stuck Inside Of Mobile. Tra gli amori persi e quelli trovati, il “sottile, selvaggio suono mercuriale” transustanzia in Sad-Eyed Lady Of The Lowlands, epica ballata di 11 minuti che occupa il lato D  dell’album, ode all’Amore e pietra di paragone di tutta la musica venuta dopo.

Riccardo De Stefano

The Mothers Of Invention, FREAK OUT!, 1966

L’esordio di Zappa con le Mothers è un unicum che contiene rock, doo-woop (Wowie Zowie), blues, avanguardia (la citazione al compositore francese Edgard Varèse), strumenti giocattolo, rumorismo e molto altro. Un’anomalia al tempo non compresa, ma riconosciuta col passare del tempo come un classico dell’underground psichedelico, in quanto costruisce la sua ragion d’essere viaggiando su numerosi paesaggi mentali e stili compositivi. La spina dorsale è un mix d’irriverenza contro l’establishment americano e di humour sull’emergente cultura freak losangeliana, da qui in poi basi per la carriera del musicista statunitense. Fra i primi doppi album della storia, influenzerà anche SGT. PEPPER’S dei Beatles.

Marco Braggion

The Music Machine, TURN ON, 1966

Sound particolarissimo, quello della band di Sean Bonniwell: abitualmente relegato a semplice garage punk, è in realtà molto più complesso compositivamente, con cambi di ritmo e soluzioni armoniche originali e inconsuete. Il tutto condito da chitarre e tastiere distorte, la voce abrasiva di Sean e un look all black temibile e inquietante. Nel 1966 ottengono un grande successo con il singolo di debutto Talk Talk e vengono spediti in studio per un album, in cui, con loro grande disappunto, finiscono varie cover registrate in precedenza in contrasto con brani autografi come Masculine Intuition o People In Me, che provano l’originalità della loro proposta.

Antonio Bacciocchi

The Seeds, THE SEEDS, 1966

I Seeds erano guidati da una delle classiche menti folli dei 60, quello Sky Saxon rimasto nel mito come uno degli iniziatori del sound garage di sapore proto punk. Il loro esordio del 1966 è un caposaldo del genere, grazie a suoni sgraziati e aspri (che si avvicinano alle chitarre dei Velvet Underground) ma abbelliti, in contrapposizione, da una tastiera quasi barocca. La voce è sempre tirata, drammatica, quasi disperata, le ritmiche e l’incedere dei brani ipnotico, con pochi cambi armonici. Brani come Pushin Too Hard e Can’t Seem To Make You Mine rimangono classici dei 60 più oscuri e pulsanti e preparano l’arrivo della psichedelia più colorata e sognante. Ma qui siamo su altri lidi.

Antonio Bacciocchi

The 13th Floor Elevators, THE PSYCHEDELIC SOUND OF..., 1966

In netto anticipo sulla concorrenza, gli “Ascensori per il tredicesimo piano” (quello che nei Paesi anglosassoni non esiste) confezionano la prima delle loro due pietre miliari – l’altra è EASTER EVERYWHERE, di un anno dopo – mescolando nel calderone dell’urgenza espressiva garage punk e assortite deviazioni. A segnare profondamente queste undici canzoni, quale più quale meno influentissime e spesso coverizzate (su tutte, ovviamente, You’re Gonna Miss Me, ma almeno Roller Coaster, Reverberation e Fire Engine sono a ridosso o quasi), chitarre polimorfe, uno strumento bizzarro quale l’anfora elettrificata e lo straordinario talento del frontman-sciamano Roky Erickson, per più di un verso il Syd Barrett americano.

Federico Guglielmi

The Velvet Underground&Nico, THE VELVET UNDERGROUND&NICO, 1966

Esiste una psichedelia non hippie? Sì, e questo disco ne è la prova. Niente Lsd e marijuana, qui: solo coca, speed e sedativi. A portare il rock in altri mondi musicali ci pensa John Cale: stridori di viola, note iterate, sibili, sedie di metallo trascinate per terra e sbattute con violenza su piatti di alluminio. Reed e Morrison ci mettono la “Ostrich Guitar” con tutte le corde accordate sulla stessa nota, distorsioni, cluster e feedback. La Tucker, dal canto suo, aggiunge ritmi ossessivi e tribali. Si canta di eroina, paranoia, sadomaso, travestiti, pusher. E tutto su dolci cantilene o rock “tradizionali”. Dallo scontro tra Brill Building, concrete e drone music nascono dream pop, rumorismo e noise. Benvenuti nell’incubo.

Renzo Stefanel

The Yardbirds, ROGER THE ENGINEER, 1966

Nella sua intricata storia, che ha visto avvicendarsi tre dei migliori chitarristi di sempre, la band inglese si trova ora nel breve periodo che segue l’addio di Eric Clapton e precede l’imminente arrivo di Jimmy Page. E si sente, eccome. Il timbro distorto e acido di Jeff Beck pervade buona parte delle canzoni (per l’unica volta tutte autografe) spingendo verso timbri sempre più aspri e crudi il loro corposo e duro rock blues, in cui s’inseriscono bene tonalità proto psichedeliche e un concetto sonoro che si emancipa dalle necessità pop per osare e andare oltre. Ci sono momenti sperimentali e altri più tradizionali, ma questa rimane la vetta artistica della band, oltre che l’unico loro album a entrare nelle parti alte delle classifiche.

Antonio Bacciocchi

Questo articolo è estratto dalla classifica dei 100 dischi del Rock Psichedelico, tratta dallo speciale di Classic Rock dedicato alla Psichedelia. Potete acquistarlo in digitale sul nostro store online.

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