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Il sound più originale della new wave? È dei Talking Heads

Tra il 1977 e il 1988 David Byrne, Chris Frantz, Tina Weymouth e Jerry Harrison hanno scritto uno dei capitoli più avvincenti del grande romanzo rock. Proiettandosi verso il futuro, come prova il fatto che la loro produzione suona tuttora attuale. Di quanti altri si può dire lo stesso?

Nel dicembre 1991, in un’intervista al «Los Angeles Times», David Byrne annunciò la separazione dei Talking Heads. Non era un roboante statement, bensì una frasetta laconica in risposta all’inevitabile domanda sulla situazione della band, da un bel po’ inattiva: Si potrebbe dire che ci siamo sciolti, mettila come ti suona meglio, aveva affermato il cantante, musicista, songwriter e – senza voler minimizzare i ruoli dei suoi talentuosi sodali – leader. Stupiti, il chitarrista/tastierista Jerry Harrison, la bassista Tina Weymouth e il batterista Chris Frantz avevano immediatamente indetto una riunione plenaria, degenerata in accuse e volar di stracci.

Nel settembre del 1992, con davanti un reporter dello stesso giornale, Frantz si sarebbe tolto il sassolino dalla scarpa con un altro “messaggio”: Per come la vediamo noi, il gruppo non si è davvero diviso. David ha solo deciso di andarsene”. A sostegno di tale tesi, oltre a esibirsi saltuariamente come Shrunken Heads (ovvero “Teste ridotte”: brillante), nell’ottobre del 1996 i tre avrebbero lanciato il progetto The Heads, temporaneamente bloccato da una causa intentata dal polemico Byrne; risolta la controversia in via extragiudiziale, il gruppo avrebbe pubblicato l’album NO TALKING, JUST HEADS, caratterizzato dall’alternarsi ai brani di vari celebri interpreti, e sarebbe partito in tour con Johnette Napolitano dei Concrete Blonde come frontwoman.

Poco apprezzata da critica e mercato, l’esperienza Heads si sarebbe fermata lì. Il quartetto storico si sarebbe riunito il 18 marzo 2002 per l’iscrizione nella Rock and Roll Hall of Fame, eseguendo Life During Wartime, Psycho Killer e Burning Down The House. Quindi, solo ghiaccio, silenzio e occasionali frecciate reciproche, con relativa impossibilità di riconciliazione.

Talking Heads 1977 (CBGB)

In realtà, in quel dicembre del 1991, i Talking Heads erano finiti da anni. L’ultimo album di studio, NAKED, era stato inciso nel 1987 e l’ultimo concerto – Byrne si era stancato – aveva avuto luogo a Christchurch, Nuova Zelanda, il 6 febbraio 1984.

La band aveva insomma sostanzialmente smesso di essere tale dopo le sedute parigine della primavera del 1988, anche se al suo interno covavano ben da prima malumori non sempre tenuti a freno: da un lato Byrne, accentratore cronico e fin troppo consapevole del suo genio, e dall’altro la coppia – pure nella vita: fidanzati dal 1973, coniugi dal 1977 – Weymouth/Frantz, con il povero Harrison a barcamenarsi nel tentativo a volte complicato di mediare.

A dispetto delle tensioni peraltro emerse dopo il 1980, o magari anche grazie ad esse, l’ensemble è però riuscito a dar vita a un’infinità di canzoni straordinarie e, soprattutto, a un sound tra i più ingegnosi, originali e influenti del dopo-punk, perennemente in audace ma saldo equilibrio tra differenti tendenze; un rock intellettuale e muscolare, stralunato e rigoroso, sperimentale e accattivante, segnato da una sezione ritmica di eccezionali compattezza ed estro e reso inconfondibile dalla voce “strozzata” del leader. 

È ben noto che negli Stati Uniti la cosiddetta new wave – la macroarea dove i Talking Heads vanno collocati – non è mai stata un fenomeno di massa, ma di sicuro nessuno come loro è stato importante per la sua pur relativa affermazione oltreoceano. OK per Cars, Devo, Television, B-52’s, se vogliamo Blondie (assai meno popolari, invece, Suicide, Pere Ubu, Residents, Chrome o Tuxedomoon...), ma dovendo fare un nome e basta, valutato ogni aspetto... non c’è storia.

Manca solo ciò che avrebbe dovuto esserci, considerato che i quattro frequentavano lo stesso circuito di Ramones, Heartbreakers, Patti Smith e Dead Boys, cioè il punk. Non ce n’è ombra se non a livello di urgenza, ma del resto i Talking Heads non potevano sposare la logica del “no future”, giacché il futuro – loro e del rock – lo vedevano benissimo.

Quanto realizzato dai Talking Heads tra il 1977 e il 1988 rimane una testimonianza luminosissima – e unica, si può azzardare – dell’arte musicale del XX secolo. A più di trent’anni dal termine di quella formidabile epopea, siamo ancora qui a spellarci le mani. E a domandarci, pur sapendo che non avremo mai risposte, “cosa sarebbe accaduto se...”

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Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi

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