La storia dietro “Paint It, Black” dei Rolling Stones

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La magnetica Paint It, Black è un distintivo marchio di fabbrica dei Rolling Stones, immediatamente riconoscibile e celebre sin da quel 1966 in cui scalò le classifiche. 

"Di notte il cielo senza stelle è tutto nero, così è il mio cuore fino all'ultimo pensiero". Ecco Caterina Caselli che con il suo caschetto biondo reinterpreta nel 1966 un brano che quell'anno attirò tutta l'attenzione mediatica. Si tratta di Paint It, Black, firma dorata dei Rolling Stones, pubblicata come traccia di apertura della versione americana di AFTERMATH e in vetta per due settimane consecutive alla Billboard Hot 100. E quello fu il brano in cui brillò il chitarrista Brian Jones in una veste inedita. Infatti, su testo di Mick Jagger e musica di Keith Richards, il ruolo da padrone lo detiene il sitar suonato da Jones. Proprio lui che lascerà una voragine negli Stones con la sua scomparsa, nel 1969. 

Questo particolare strumento indiano, acquistato da Jagger e Richards alle Fiji, non può che trovare ispirazione musicale in George Harrison. Il quiet beatle ne aveva enfatizzato la melodia anche in Norwegian Wooddestreggiandosi come pioniere di sonorità innovative, che ipnotizzarono Jones.

La musica li ha uniti, la musica ha forgiato Paint It, Black. E il pezzo è nato quasi per scherzo, dato che Bill Wyman si stava intrattenendo con il suo Organo Hammond, quando gli altri si sono uniti alla jam. E originariamente incorporava un suono funky, evolutosi poi nella poesia dark che tinge di dolore un mondo divorato dall'oscurità. Sembra anche che prima di scrivere il brano, i Rolling Stones abbiano visitato il Peggy Guggeneheim di New York. 

Qui, tra le opere d'arte contemporanee, la tela Untitled (Black On Gray) del pittore lettone Mark Rothko, potrebbe, come sottolineato da «GQ», aver ispirato i nostri. Perché il ritmo frenetico della canzone induce una claustrofobia che soffoca qualsiasi spiraglio di luminosità. Così il piano di Jack Nitzsche si accompagna alla marcia di Charlie Watts dietro i tamburi, con il respiro tenebroso del basso sovrainciso di Bill Wyman. Ecco, tutto questo, catalizzato sulla chitarra di Richards e scandito dal crescendo urlato di Jagger, crea una propagazione di onde hard rock irresistibile. Tuttavia, ogni volta che ascoltiamo questa canzone, affonda nella nostra memoria l'immaginario della Guerra del Vietnam. 

Perché è stato proprio il maestro Stanley Kubrick, con la chiusura del suo Full Metal Jacket (1987) a legare la canzone alla carneficina di vittime sul fronte vietnamita. Il pezzo, infatti, non ha alcuna correlazione in sé con la guerra. E proprio in questo sta la magia di dar voce a più scenari semplicemente evocando l'oscurità. Questa, indirettamente, richiama quel Cuore di Tenebraromanzo di Joseph Conrad, a cui Kubrick si ispirò per affondare le mani nell'atroce oscurità dell'anima, nella follia e nell'abbandono. Quando però il brano uscì nel 1966, l'attenzione mediatica non si posò tanto sul testo, quanto sul titolo, con quella virgola che Richards spiegò come un errore o una volontà sconosciuta della Decca Records

"Ricevemmo alcune strane lettere, delle lettere razziste. C’era una virgola nel titolo? Rappresentava un ordine per il mondo?". Così Richards descrisse la valanga mediatica che accompagnò la virgola Paint It, Black, interpretata come un'imposizione razzista, tradotto brutalmente con "Dipingilo, nero": una sola canzone può irradiare una tale potenza interpretativa da cercare un'interpretazione e una lettura personale, ma universale, anche a distanza di oltre cinquant'anni dalla sua composizione. E come dimostra lo sconfinato elenco di cover, non c'è epoca che possa rinunciare al misticismo dark di Paint It Black. 

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