A che età si è acceso il tuo interesse per l’arte?
Non ricordo di avere eccelso o anche solo di aver fatto qualcosa di creativo a scuola, ma sono cresciuto in un ambiente piuttosto artistico – se intendiamo l’arte come qualcosa di non limitato alla pittura.
Erano i tardi anni Sessanta, e i miei genitori erano parecchio interessati alla poesia e alla cultura, a strani generi musicali, come anche al buddismo e alle filosofie orientali.
Mio padre possedeva alcune stampe di Warhol, e molte persone dell’ambiente frequentavano casa nostra.
Da ragazzino, quali copertine di album ti colpirono?
Burn dei Deep Purple, con quelle candele.
E le copertine fatte dai tipi di Hypgnosis per gli UFO. C’erano delle immagini veramente belle su vagabonds of the western world dei Thin Lizzy e su bridge of sighs di Robin Trower. Ma per i miei gusti il più iconico di tutti era rising dei Rainbow.
Gli album dei Metallica avevano una grafica heavy-metal abbastanza generica fino agli anni Novanta.
Poi per Load e Re-Load usaste il lavoro di Andreas Serrano. Fu un’idea tua?
Kirk [Hammett] e io eravamo appassionati di fotografia avantgarde, e Serrano era sui nostri radar dopo la controversia che era scoppiata in America riguardo Piss Christ [la foto di un crocifisso di plastica immerso nell’urina dell’artista].
La vera dichiarazione art-rock dei Metallica è stata lulu, l’album che avete fatto con Lou Reed nel 2011.
Ti dispiace che i vostri fan l’abbiano odiato?
Chiunque metta cuore e anima in un progetto mentirebbe se dicesse che non gli importa se la gente lo odia.
Però la reazione negativa non cambia la mia opinione su quel disco.
I Metallica hanno la pellaccia dura. Ma è stato pesante per Lou essere il destinatario di tutta quell’energia negativa.
Pensi che l’arte sia definita troppo dal suo valore commerciale?
Come quasi qualunque cosa. L’Arte, nel senso più ampio, è diventata materia da investimento.
Se compri un dipinto per due milioni di dollari e l’artista è quello giusto, 10 anni dopo lo puoi rivendere per cinque. Ma per me l’arte non è stata mai una questione di denaro.
Eppure quando nel 2002 hai venduto parte della tua collezione, i titoli dei giornali erano tutti incentrati sui 10 milioni che avevi guadagnato.
Non posso farci niente. Avevo un quadro di Basquiat che aveva raggiunto un prezzo da record mondiale. E allora? Un quarto di dollaro mi basta per andare in autobus.
Ti capita di comprare opere di poco prezzo?
Certo!
Invece di comprare quadri costosissimi di persone morte, ho iniziato ad acquistare opere di prezzo ragionevole di artisti viventi.
Ma c’è una linea sottile tra il collezionare e l’accumulare. L’arte non si possiede veramente. Puoi esserne semmai il guardiano, il custode, per un certo periodo di tempo. L’arte è qualcosa che deve essere tramandata. Non dovresti farne incetta.
Ti sei mai sentito fuori posto nell’ambiente artistico?
Non mi sono mai sentito a disagio. Anzi, è in quell’ambiente che per la prima volta mi sono sentito autonomo.
In che senso?
Quando crei una band da giovanissimo, la tua personalità, quello che ti definisce, è quella band, quella gang. Con l’arte invece mi sono trovato a fare qualcosa esclusivamente per me, e non per il gruppo. È stato liberatorio.
È stato così importante per te?
Sì. Durante i primi dieci anni di vita del gruppo, James e io vivevamo nella stessa stanza.
Quel senso di co-dipendenza ti rimane dentro. Quando presi la mia prima casa da solo, andai a comprare un divano. E me ne stavo lì seduto a pensare: “Chissà che ne penserebbe James?”.
Parliamo di un uomo adulto che comprava un fottuto divano! Quindi, in un certo senso, esplorare il mondo dell’arte per conto mio è stato un esercizio per liberarmi da quella dipendenza.