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In onore di Jeff Beck

Questo è un estratto dell’articolo “Nel nome di Jeff”, di Bruno Cavicchini, dall’ultimo numero di Prog Italia

Scrivere un articolo su Jeff Beck, specialmente poco dopo la sua morte, non è semplice,

d’altronde non sarebbe stato facile neanche prima, visto che si trattava di un artista unico e inimitabile. Il cuore degli appassionati, che lo hanno sempre seguito e amato con profondo trasporto, trabocca ancora del senso di smarrimento e di tristezza, che prima o poi lasceranno il posto alla inevitabile accettazione della realtà. 10 gennaio 2023... quel maledetto giorno verrebbe da dire. Ma proviamo a dare un senso e una direzione alle emozioni che hanno accompagnato la sua scomparsa, cercando di tributare il suo talento e la sua originalità nell’ambito di un racconto che, attraverso parole, immagini, ricordi e analisi, possa offrire una sintesi, speriamo utile e interessante, del genio di questo musicista.

Non è facile inquadrare lo stile e la musica di Jeff Beck. Camaleontico, stilisticamente inafferrabile, allergico alle mode e ai sentieri musicali più comuni, bastian contrario per natura. Potremmo quasi dire che sia il chitarrista sconosciuto più famoso al mondo. O, se preferite, il chitarrista meno conosciuto più famoso al mondo. Insomma, è un ossimoro. Una contraddizione in termini. Un contrasto intrinseco. D’altronde la realtà è frutto di perenni contrasti. Essa si alimenta di tali contraddizioni e ne fa una sintesi. Pensiamo alla notte e al giorno, al caldo e al freddo, al solido e al liquido.

E tuttavia, anche se molto di quello che vediamo e percepiamo ci sembra lineare, scorrevole, facilmente identificabile, ad un’analisi più attenta, dietro le apparenze sensibili convivono contrasti e antinomie (ah, il “velo di Maya”! Nell’India antica Maya interpretava la capacità degli dei di manifestarsi e trasformarsi in infinite forme, ma proprio questo potere finiva per confondere gli uomini e celare loro la vera natura della realtà. Oggi Maya è il nascondersi dietro le maschere, interpretando ruoli sociali e non sentiti e opportunistici, il rincorrere modelli precostituiti). Siamo sempre lì: il vezzo dell’essere umano di dover identificare ed etichettare tutto con l’obiettivo di rendere la realtà facilmente riconoscibile ed inquadrabile in comode categorie precostituite.

E così, tutto ciò che può rapidamente essere ricondotto all’interno di schemi diventa familiare e, dunque, facilmente assimilabile. Piace immediatamente ciò che possiamo riconoscere, perché non comporta fatica e non mette in discussione le nostre certezze. Poi, però, ci sono dei fenomeni in natura, neanche troppo rari, difficilmente inquadrabili nelle categorie tradizionali con cui schematizziamo la realtà e che ci chiedono qualche sforzo in più per poterli decifrare. Oggetti o personaggi che a primo impatto ci lasciano spiazzati e spaesati.

A questo punto, si hanno due tipi di reazioni. Qualcuno si ritira nelle proprie certezze senza cambiare mai, altri rimangono affascinati da questo senso di “non familiarità”... irresistibilmente attratti e decidono di approfondire, di scoprire, certi della sensazione che ne usciranno completamente conquistati e modificati. Questo è l’effetto che l’approccio adottato da Beck sulla chitarra e nel creare musica può avere sull’ascoltatore al primo impatto. Ed è quello che spesso ho potuto riscontrare nelle risposte del fan medio di musica rock o del chitarrista rock tradizionale.


Cito, ad esempio: “Sì, Jeff Beck l’ho sentito nominare spesso ma non ho mai ascoltato nulla”... “Sì, ricordo una volta in cui un mio amico mi ha fatto ascoltare un brano, non ricordo quale, però non sono riuscito a identificare bene il suo stile... sai, l’ho trovato strano”. Forse alcuni di voi rimarranno sorpresi nel leggere questo tipo di risposte. Ebbene, accade più spesso di quanto si possa immaginare, soprattutto al livello di cultura musicale di massa, compresa quella di noi chitarristi.

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Testo: Bruno Cavicchini (chitarrista, compositore e insegnante)

Mila Spada

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Mila Spada
Tags: jeff beck

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