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Quattro anni di YES | PROG GLORIE

Testo di Maurizio Maus Principato

Prendete Jon, un cantante di umili origini dalla voce vellutata e con un carattere al limite del bipolare: mite e dispotico, pragmatico e sognatore, figlio dei fiori e stratega. Prendete Chris, un bassista cresciuto ascoltando jazz, beat e musica sinfonica europea ma educato al bel canto nel coro di un’antica chiesa anglicana. Prendete il timido Peter, destinato originariamente a fare il guardiano allo zoo e che, in seguito, affascinato da rockabilly, british folk e cool jazz, decide di diventare chitarrista e compra una bella chitarra elettrica Gretsch perché George Harrison ne ha una uguale. Prendete Tony, che desiderava diventare un pianista classico ma, una volta scoperti Count Basie e Duke Ellington, si converte al jazz e, dopo aver studiato ‘arrangiamento’ con un corso per corrispondenza, manda a quel paese il jazz e abbraccia il rock’n’roll. Prendete infine il batterista Bill, un tipo cool ma capace di scoppi d’ira improvvisa, insofferente alla moda hippy e il cui background si basa sulla visione della serie TV Jazz 625, che durante l’adolescenza gli aveva fatto conoscere e amare il drumming articolato e fantasioso di Max Roach e Art Blakey. Prendete questi cinque tizi, immaginateli a Londra nel 1968 mentre formano una nuova band. Potrebbe venirne fuori qualcosa di buono? La risposta è: Yes.

I favolosi anni Sessanta

La British Invasion eccitò il mondo con un’ondata di musica inedita. Gli americani avevano inventato il rock’n’roll con Ike Turner, Elvis Presley, Buddy Holly ed Eddie Cochran? Gli inglesi metabolizzarono la lezione e risposero con Beatles, Rolling Stones, Kinks, Small Faces, Animals, Who. Superata la sbornia pop, in Inghilterra le cose andarono avanti e, cogliendo l’invito ad allargare la coscienza che arrivava dalla West Coast statunitense (grazie a Beach Boys e a Grateful Dead, Love, Jefferson Airplane, The 13th Floor Elevators), sul finire degli anni Sessanta nacquero nuovi linguaggi musicali. Forti di una tradizione che affondava le proprie radici nella musica rinascimentale e romantica, numerose band britanniche inaugurarono la strada del progressive (o prog) rock. Un gruppo destinato a incarnare la miglior essenza del genere scelse di chiamarsi ‘Yes’ (ricordate i cinque tizi di cui parlavamo prima?), un nome semplice e memorabile.

Make music, not love

Quando si parla di gruppi rock, a volte musica e biografia coincidono. Basti pensare al tormento artistico ed esistenziale dei King Crimson, alle trasgressioni dei Rolling Stones (ricordate il Making of di “Exile on Main St.” nel numero 7 di Classic Rock Lifestyle?) o alla brutale voglia di rock’n’roll degli AC/DC raccontata qualche pagina fa (e anche nel n° 1 di Classic Rock Lifestyle). In altri casi, invece, un’apparente armonia può nascondere tensioni enormi.

È ciò che accadde agli Yes, che per molti rappresentarono l’essenza del messaggio hippie ‘peace and love’ applicato al progressive. «‘Pace e amore’ negli Yes? Se ti fermi a un’analisi superficiale, forse puoi credere a questa favoletta. Ma la verità è un’altra» ha detto il caustico batterista William Scott “Bill” Bruford, motore ritmico della band per quattro intensi anni, «C’era un notevole carico di aggressività che sapevamo tradurre in brani di forte impatto. Pretendevamo il massimo da noi stessi e dal gruppo e avevamo manie di perfezionismo, ma le relazioni interpersonali non erano buone. A questo si aggiungeva un aspetto grave: l’incapacità dei manager che gestivano le finanze della band. Se le cose fossero andate diversamente, l’evoluzione degli Yes non si sarebbe fermata nel 1972». Quando la band nacque, le ambizioni erano grandi e gli obiettivi, per un certo periodo, furono raggiunti...

...Questo e molto altro su Prog Glorie n.2! Dal primo agosto in edicola e online.

Mila Spada

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