Re-BORN IN THE U.S.A. | Classic Rock

Testo: Warren Zanes

Appena BORN IN THE U.S.A. fu pubblicato, iniziarono a diffondersi le teorie più varie sul significato della sua copertina. Chiamatelo un indizio inequivocabile di successo. Più o meno alla stessa maniera in cui la copertina di ABBEY ROAD alimentò interpretazioni, teorie e leggende metropolitane, così accadde con il settimo album di studio del Boss: pisciava sulla bandiera, sollevava pesi, puntava a farsi ammirare il culo, o era solo un bravo ragazzo americano che rendeva omaggio al suo Paese, con quel cappello da baseball infilato nella tasca posteriore. Per quanto clandestine, queste interpretazioni esistevano e circolavano. L’allora presidente degli USA Ronald Reagan, sicuramente non il tipo da perdere il tempo ad analizzare la copertina di un disco, o i suoi testi, scelse l’ultima di queste letture ed espresse pubblicamente la sua vicinanza all’artista. Ma Springsteen, e non c’è da sorprendersi, non si lasciò tirare per la giacchetta. Non tutte le copertine hanno quest’impatto immediato. Anzi, la maggior parte non ce l’ha. Di solito è la musica, col passare del tempo, a dare un senso alla copertina. Esistono però rari casi in cui il pubblico resta catturato da subito, e così “sperimenta” il disco ancora prima di ascoltare la musica: pensate a LONDON CALLING dei Clash, a MAGGOT BRAIN dei Funkadelic, a THE VELVET UNDERGROUND & NICO, o a TO PIMP A BUTTERFLY di Kendrick Lamar.

Certo, se realizzare copertine di dischi di tale impatto fosse facile, tutti lo farebbero. Nei primi 10 anni passati nelle braccia della Columbia Records, Springsteen aveva già dimostrato di prendere la questione immagine molto seriamente e di possedere un notevole intuito e una capacità molto sofisticata nell’usare l’elemento visuale per introdurre i suoi dischi al pubblico, costruendone l’identità. E infatti di copertine ne aveva indovinata più di una. Fin dagli inizi della sua carriera, aveva imparato come collaborare con i fotografi e i direttori artistici e come darsi uno stile senza farlo sembrare costruito a tavolino. La maggior parte di questo lavoro lo aveva fatto di puro istinto e forte dei suoi studi da autodidatta. Aveva imparato a rifiutare un artwork, a spiegare il motivo del suo rifiuto e soprattutto a legare l’immagine e la musica. In un periodo relativamente breve, aveva pubblicato dischi dalle copertine dall’impatto forte come BORN TO RUN e DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN. Ma BORN IN THE U.S.A. le batteva tutte. Ti prendeva subito, si imponeva alla tua attenzione. Da quell’immagine capivi che il disco aveva una sua drammaticità. Tra la foto di Annie Liebovitz, con i suoi colori saturi e i contorni molto aggressivi, e il titolo, il pubblico aveva tutti gli elementi per intuire che c’era qualcosa dal significato molto profondo, e qualcosa di nuovo, anche per l’artista, in quel disco. E appena iniziava l’ascolto, queste sensazioni trovavano immediata conferma. Il primo impatto era rappresentato dalla title-track: dal primo verso fino al primo ritornello l’arrangiamento era minimale, solo la linea al synth di Roy Bittan e il massiccio rullante di Max Weinberg, ripetuto più e più volte, che dava alla voce bruciata di Springsteen una nuova intensità. In quanto brano di apertura, Born In The U.S.A. fu vista come una sorta di manifesto programmatico: la copertina era una dichiarazione. La produzione era una dichiarazione. Il brano era una dichiarazione.

Chi ascoltava, non poteva in alcun modo fermarsi dopo il primo brano. E l’idea era proprio quella.

Eppure, BORN IN THE U.S.A. non fu un parto facile, né seguì un progetto deliberato, almeno fin quasi agli ultimi stadi del processo di realizzazione. Fu il disco che
gli cambiò la vita e la carriera, e lo fece dal primo istante che gli ascoltatori lo ebbero tra le mani. Era un viaggio, e chi lo ascoltava rimaneva a bordo. Ma mentre il quasi contemporaneo THRILLER fu il risultato di ciò che il produttore Quincy Jones descrisse come una sorta di strategia militare, una reazione concentrata e deliberata alla risposta insoddisfacente che il mondo dei Grammy aveva riservato al precedente disco di Michael Jackson, OFF THE WALL, BORN IN THE U.S.A. fu tutt’un’altra storia. Certo, in un certo senso quei due dischi sembravano simili, come se un team di produzione si annidasse nell’ombra con un unico obiettivo: “Portiamo questo figlio di puttana fino in cima!”. Ma non andò così. Non funzionava così nel mondo di Springsteen. Non allora, e non oggi. BORN IN THE U.S.A., come mi disse una volta Springsteen, “era solo ciò che avevo attorno in quel momento”.

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