Il sole pomeridiano strappa bagliori dai candelabri dell’albergo londinese dove gli Alice in Chains stanno parlando di RAINIER FOG, il loro terzo disco da quando nel 2005 William DuVall ha sostituito il defunto frontman Layne Staley. È un album fiducioso e ottimistico, tanto quanto potremmo aspettarci da un gruppo che un tempo rappresentò la colonna sonora del declino di Seattle. Il loro atteggiamento, mentre viene servito il pranzo, è sfrontato e arrogante almeno quanto il singolo di lancio, The One You Know, che su un beat marziale e martellante pone la questione capitale: ’Tell me does it matter / If I’m still here or I’m gone?’.
È una chiamata alle armi rock, e non può essere ignorata. “Mi ricorda la scena di Psycho, quella in cui Janet Leigh viene accoltellata nella doccia!”, ci dice Jerry Cantrell con un ghigno. “Reeh – Reeh – Reeh! Tostissimo, è sicuro”. Col suo cappellino da baseball nero, una barbetta ispida biondo platino e un accento davvero troppo da Nord Ovest USA, in questi ambienti raffinati il cantante/chitarrista degli Alice in Chains sembra un po’ fuori luogo, come un camionista a un tè della buona società. Anche se oggi si sente di buon umore, non è del tutto convinto che la loro etichetta stia promuovendo nel modo giusto questo disco, presentandolo come un’alba luminosa per il gruppo più oscuro della scena grunge.
“Mi va anche bene che facciano così”, concede. “A livello di testi, c’è lo stesso la nostra consueta cupezza, come in ogni altro che abbiamo fatto. È molto intenso a livello emotivo. Presentarlo come una cosa nuova, luminosa – sì certo, forse. Personalmente, non saprei che dire. Questo viaggio lo facciamo tutti assieme, e non ci tiriamo indietro davanti a niente”. In effetti, le raccomandazioni fatte prima dell’intervista, che dicevano di evitare riferimenti alle overdosi fatali di Staley nel 2002 e del bassista originale Mike Starr nel 2011, sono state rese inutili dal roboante brano che intitola RAINIER FOG, con quel ritornello che arriva dritto dall’età dell’oro del grunge. Inizia così: ‘Some things last, some times you never get over’, prosegue con ‘Left me here so all alone’ e conclude con ‘Only for me to find / Hear your voice always regrown, echoes inside my mind / Disembodied, just a trace / Of what it was like then / With you here we shared a space that’s always halfempty’.
“Questo è Layne”, dice Cantrell. “Anzi”, precisa, “questi sono Layne e Mike. Mister Staley e Mister Starr. Sono sempre con noi. Ho iniziato a scrivere e alla fine mi sono ritrovato a parlare del posto da dove veniamo e di chi siamo. A rendere un tributo alla nostra città natale, a tutti i musicisti che non ci sono più, a tutto quanto”.
“È una riflessione molto personale su una vita vissuta. Ma non guardando indietro, al passato. No. Io guardo anche avanti. Sentendomi fiero e onorato di essere ancora in pista a fare quel che faccio. Il demo l’ho fatto assieme a Duff McKagan e alla fine lui mi ha detto: ‘Amico, questa è la tua canzone!’. Spero sia così”.
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