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John Petrucci dei Dream Theater: “Fummo criticati, per la gente era tutto sbagliato”

Prima di loro il progressive metal non esisteva. Abbiamo fatto una chiacchierata con John Petrucci, chitarrista e fondatore dei Dream Theater.

I Dream Theater sono un gruppo che non ha bisogno di presentazioni: nella loro carriera hanno venduto ben 15 milioni di dischi e il loro album METROPOLIS PART 2: SCENES FROM A MEMORY è stato addirittura votato nel 2012 come migliore disco prog di sempre dai lettori di «Rolling Stone». Da poco è uscito il quattordicesimo album in studio, DISTANCE OVER TIME (Sony/Inside Out): abbiamo approfittato dell’occasione per fare quattro chiacchiere con John Petrucci, chitarrista e leader storico della band di New York.

Ti avranno chiesto mille volte perché hai iniziato a suonare la chitarra, ma a me incuriosisce soprattutto il fatto che tu a un certo punto abbia voluto produrre da solo i dischi dei Dream Theater...

Dopo FALLING INTO INFINITY e prima di cominciare a lavorare a SCENES FROM A MEMORY ho capito che eravamo tutti desiderosi di cambiare le cose in maniera radicale, certi aspetti che riguardavano la gestione del gruppo e anche qualcosa al suo interno, a essere onesti. Eravamo un po’ a un punto cruciale e Mike Portnoy un giorno mi ha proposto di provare ad auto produrci, sostenendo che non avevamo bisogno di aiuti esterni. È nato tutto da una sua proposta, in effetti.

DISTANCE OVER TIME parte con  unbrano che sembra esplorare le paure dei giovani di questi anni...

La prima canzone del disco, Untethered Angel, parla proprio di questo. Ricordo quando avevo quell’età, attorno ai vent’anni. Non avevo così tante paure, non pensavo troppo a quello che avrebbe pensato, e tantomeno detto, la gente. I ragazzi oggi hanno molta paura e questo li paralizza. Nel pezzo successivo, infatti, Paralyzed, ho immaginato il me stesso passato, molto testardo e ostinato, che incontra il mio io attuale. E gli dice “non fare così, rimarrai bloccato”.

Avete introdotto, se non addirittura creato, il progressive metal... sentite un senso di importanza storica per aver aperto la strada a tanti altri dopo di voi? Inoltre, un po’ come i Marillion negli anni 80, avete avvicinato un pubblico più giovane al prog degli anni 70.

Non esisteva la scena prog metal prima di noi. Mi ricordo che ci paragonavano addirittura ai Kansas! Era l’unica cosa che riuscivano a fare! Forse anche ai Rush. Oggi sembra strano, vista la popolarità e la diffusione del genere, ma all’epoca fummo molto criticati per quello che facevamo, per ciò che ci rendeva unici. Le canzoni erano troppo lunghe, gli assoli... per molta gente era tutto sbagliato. Il progressive metal non doveva esistere e basta!

 


L'intervista completa è disponibile sul numero 23 di «Prog».
Antonio De Sarno

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