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Frank Zappa: tutti i segreti di “Hot Rats”

Stanco di fare concerti in perdita, Frank Zappa scarica i Mothers of Invention e flirta con il jazz in uno dei dischi più amati della sua produzione: HOT RATS.

Durante l’estate del 1969 Frank si è messo intesta di trasformare lo studio di registrazione in uno strumento-laboratorio, facendo un disco tutto strumentale, interamente di sovraincisioni, ma anche di dimostrare due cose: di essere in fondo anche lui – che da piccolo suonava la batteria e ha imbracciato la chitarra solo dieci anni prima – un guitar hero; e di saper maneggiare, tra le altre cose, anche questo benedetto jazz. Così, fa costruire quello che è praticamente un prototipo di registratore a 16 tracce (per capirci: due anni prima, il SGT. PEPPER’S dei Beatles era stato registrato con un 4 tracce) e si autoreclude per due mesi assieme al fidato Ian Underwood, il meno freak e più tecnicamente dotato dei Mothers (a cui affida tutte le tastiere e tutti i fiati), e a un piccolo drappello di turnisti dalla salda mano jazzistica (a spartirsi basso elettrico e batteria). Quello che viene fuori è una delle prime, ancora non codificate, miscele di jazz-rock in circolazione. All’epoca questa fusione tra suoni elettrici, groove robusti ed elasticità improvvisative è ancora acerba: ci sono gli inglesi in particolare che la bazzicano, tra Canterbury e dintorni, e ci sono ovviamente le prime prove del Miles Davis che sogna già di jammare con Jimi Hendrix, ma poco altro.


HOT RATS è una personale visione zappiana del Third Stream

HOT RATS suona diverso dal jazz-rock proto-progressivo degli inglesi e dalla fusion embrionale e amniotica di Miles. Con quel suo piglio quasi cameristico, è quasi una sorta di personale visione zappiana del Third Stream,la sintesi tra jazz e musica classica che aveva avuto un certo successo tra anni Cinquanta e Sessanta. Frank è sempre Frank, sia chiaro,e le cose dritte non riesce a farle neppure sotto tortura, eppure qui dosa con particolare oculatezza le consuete eccentricità, producendo un’opera sorprendentemente omogenea, bilanciata, snella. Sei pezzi, meno di cinquanta minuti. Questo che è uno dei dischi più amati di Zappa, anche dai non zappiani, rappresenta una vera anomalia all’interno della sua proverbialmente onnivora e dissennata produzione discografica. Anche la copertina, così spiazzante e così riconoscibile, è un unicum tra i collage solitamente da lui scelti per presentare visivamente il prodotto all’ascoltatore.

L’articolo integrale su Classic Rock 85, in edicola o acquistabile online qui.

Gabriele Marino

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Gabriele Marino

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