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Il blues secondo Zucchero

Tutto inizia dal calcinculo di un paesino della bassa Emilia. È lì che Zucchero scopre la black music e sogna di diventare un musicista. Ce la farà, ma la strada sarà lunga e tortuosa. Perché la discografia italiana è un luogo malsano e pericoloso, forse più di certe paludi della Louisiana.

Ad aprile dall’Australia partirà il tuo nuovo tour mondiale. Poi suonerai negli States e in Europa. In Italia arriverai solo in autunno, dove farai 12 date consecutive all’Arena di Verona. Un impegno incredibile, ma che dubito ti spaventi: ti ho sempre visto come un vulcano di energia. È stato per caso un bisogno di energia a spingerti da ragazzo verso la musica nera?

In un certo senso sì. Nel mio paesino c’era la festa di san Biagio, c’erano le bancarelle ma soprattutto dietro la chiesa c’era il calcinculo [la giostra, ndr], che suonava le novità e quello per me era l’unico modo di ascoltare musica. Non c’erano molte altre possibilità. Il bar del paese non aveva neppure il jukebox, per dire. E lì ho ascoltato per la prima volta le canzoni di complessi come i Procol Harum, i Beatles e i Rolling Stones, insieme ai gruppi italiani che facevano le cover delle canzoni inglesi o americane, che però noi pensavamo fossero originali: i Nomadi, l’Equipe 84, i Dik Dik, i Camaleonti. E quella musica lì, così ritmica, mi piaceva, mentre invece non mi è mai piaciuta la musica tipicamente melodica. Mi sono riconosciuto sempre in quella, e non in questa. Poi fui fulminato da Otis Redding, quando questo mio amico americano mi fece ascoltare il 45 giri di (Sittin’ On) The Dock Of The Bay. Poi scoprii Wilson Pickett e il resto.

Una cosa che ti avrà sicuramente colpito è la fisicità, anzi la carnalità, di quella musica, anche nei testi...

Quella è fondamentale. Quel tipo di musica lì ha degli ingredienti fondamentali: il ritmo, ma anche la sensualità. Il sesso, inteso anche come rituale. È una musica molto fisica, mentre il cantautorato italiano ha preso più dalla Francia, e quindi è più testuale, più intellettuale, mentre musicalmente è abbastanza semplice, ripetitivo. Io però nasco come musicista, e quindi ero attratto soprattutto dalla musica, non capivo neanche le parole, mi arrivava solo questo modo di suonare, di cantare, di dividere il ritmo, di usare queste metriche tronche, insomma lo swing. Poi, quando ho cominciato a leggere alcuni testi tradotti, per esempio di Marvin Gaye, ma anche dei padri del blues, ho capito che la sensualità, la carne, il sesso, erano importantissimi. Pensa a Got My Mojo Working di Muddy Waters, ma è solo un esempio.

Non sono moltissimi i grandi nomi italiani che hanno saputo far propria la lezione della black music. Mi vengono in mente Battisti, Dalla, Paolo Conte e Pino Daniele. Sono artisti che seguivi?

Seguivo molto Lucio Battisti, che attingeva parecchio al rhythm&blues. È stato quello che mi ha fatto pensare: “Cazzo, anche lui attinge da Wilson Pickett, e funziona, allora vuol dire che c’è spazio anche per me”. Poi ho scoperto Lucio Dalla e soprattutto Pino Daniele, che andava ancora di più nel soul. Paolo Conte invece l’ho scoperto dopo. In quel periodo lì non pensavo a lui. Anche perché a quell’epoca era ancora solo un autore. Se pensavo a lui, pensavo ad Azzurro. Comunque, mi piace come l’hai messa: “Fare propria la lezione del blues”. Quando mi dicono che faccio blues, sorrido: io non faccio blues. Io prendo dal blues: ritmi, suoni, modi di cantare, modi di suonare, il ricorso a certe note. Tutto qui. Certo, un giorno mi piacerebbe riuscire a fare un disco di vero blues, facendo cover. E forse lo farò. Perché il blues è quella cosa lì, e solo quella. Non c’è un nuovo blues: già il fatto di definirlo nuovo blues, vuol dire che è un’altra cosa.

L'intervista integrale è disponibile sul numero 24 di «Vinile», in edicola o sul nostro store online.
Maurizio Becker

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