Categories: ArticoliProg

I Marillion: la band che ha unito prog, rock e musica classica

La storia del progressive è costellata di tentativi più o meno riusciti di unire, o far dialogare tra loro, il linguaggio della musica classica e il rock. È il caso dei Marillion e la tappa romana del loro tour non ha fatto eccezione. 

I Marillion approdano a Roma il 12 dicembre 2019. La cornice questa volta è l’affascinante Auditorium di via della Conciliazione con vista sulla Basilica di San Pietro. Recentemente, stanno vivendo una nuova giovinezza, una rinascita artistica e professionale. I numeri sono cresciuti in modo esponenziale, probabilmente grazie alla pubblicazione di album ben prodotti e focalizzati sulla direzione da seguire.

Io ho avuto la possibilità di essere presente all’opening act, insieme a Jennifer Rothery. Durante quel tour, i luoghi prescelti erano sempre teatri incantevoli, sempre riempiti dal pubblico. L’apertura del concerto romano viene affidata alla lunga suite Gaza, uno dei brani “progressivi” meglio strutturati della loro intera carriera. Le liriche, che raccontano il terrore e le speranze della popolazione martoriata da un eterno conflitto, cementano cinematograficamente i diversi movimenti musicali. L’esecuzione è tra le più potenti e ispirate alla quale io abbia mai assistito. Pete Trewavas satura il basso in alcuni passaggi, Steve alterna assoli di brillante melodia a pure suggestioni noisy. La piccola orchestra colora e interpreta con evidente coinvolgimento emotivo, così tutto funziona con un affascinante misto di potenza ed eleganza.

Il secondo brano svela in maniera più esplicita l’intenzione del nuovo spettacolo. Laddove, durante Gaza, gli archi e i fiati erano rimasti in secondo piano nel missaggio complessivo, in Beyond You respirano di una piena libertà espressiva.

La serata prosegue con l’esecuzione della storica Seasons End, che ha segnato lo spartiacque tra le due epoche “marilliche”. Una lirica ecologista, quasi un inno dolente con una visione futuristica di un mondo stravolto da drammatici cambiamenti climatici.

Seguendo il sentiero lasciato dalle molliche di pane dei primi tre brani, appare piuttosto chiara la meta della setlist: nessuno sconto all’emozione, e la migliore proposta possibile. Nessuna divagazione “leggera”, nessuno dei brani “minori e sperimentali” del loro repertorio, che spesso dividono il giudizio dei fan.

Si prosegue con Estonia, il requiem per antonomasia dei Marillion, utilizzata come saluto ai propri defunti o come supporto al lutto degli amici. Il brano racconta la storia di un naufragio, ma nel tempo è diventato una sorta di inno per alleviare il dolore di ogni perdita umana. Qui troviamo probabilmente il momento più alto del concerto per quanto concerne l’esperimento band con orchestra. La sezione degli archi, più il corno e il flauto, interpretano una inedita introduzione con profondità assoluta. Questa versione riesce a far esprimere al meglio ogni musicista coinvolto, e non è un caso che sia stata scelta come singolo per il lancio del progetto. 

La setlist procede con You’re Gone, che rappresenta il momento meno riuscito, dove i Marillion si concedono un respiro ai toni “drammatici” che colorano il concerto. La motivazione dell’inserimento di You’re Gone appare più chiara quando Hogarth annuncia il brano successivo: The New Kings, analisi dura e spietata sugli equilibri (o squilibri) dell’economia occidentale. Una suite densa, scritta e composta da artisti maturi, nel desiderio dichiarato di lanciare un monito alla società moderna.

Con The Sky Above The Rain non cala l’attenzione. È il racconto di un contrastato rapporto di coppia, divenuto in questi ultimi anni un inno per i fan che hanno vissuto esperienze simili. Anche in questo caso restiamo colpiti dall’efficace arrangiamento orchestrale, che sostiene ed enfatizza le emozionalità.

Si prosegue con Afraid Of Sunlight, ormai un classico, e The Space, tornata prepotentemente in queste ultime stagioni nelle scalette “marilliche”.

La summa del pensiero della band, la degna conclusione di un momento entusiasmante, ben costruito, solido, colmo di intuizioni acute. Ocean Cloud è un capolavoro e per un tastierista anche una delizia dei sensi, se si ascolta con attenzione il lavoro di Mark KellyThis Strange Engine è uno dei migliori testi mai scritti da Hogarth, un’elegia appassionata dedicata ai propri genitori, ai propri ricordi d’infanzia e, più in generale, una riflessione sul potere positivo dei sentimenti più nobili. Il concerto si conclude con due opere monumentali, e la percezione finale è di un genuino e profondo appagamento. Una proposta artistica che coinvolge e travolge per la sua leggera complessità, per l’audacia dei temi presentati, per l’esecuzione impeccabile

Redazione

Share
Published by
Redazione

Recent Posts

Quando Freddie Mercury scrisse “Killer Queen” in una notte | CLASSIC ROCK

Scritta per essere inserita nel terzo album dei Queen, "Killer Queen" si rivelò da subito…

7 ore ago

Quando De André superò i Led Zeppelin nelle classifiche

De André costruì un concept album sul tema dei vizi e delle virtù. E sbancò…

14 ore ago

E cosa c’entra Beyoncé su «Classic Rock»?

"Vi consiglio di ascoltare COWBOY CARTER di Beyoncé, magari fra un Metallica e un Pink…

1 giorno ago

Fuori oggi l’attesissimo numero di CLASSIC ROCK

Finalmente in edicola e online, il nuovo numero di CLASSIC ROCK con in copertina la…

2 giorni ago

Esce oggi il nuovo numero di VINILE

In copertina Fabrizio De Andrè, con i 60 anni di “Marinella”, e poi Claudio Lolli,…

2 giorni ago

Freddie Mercury, Elton John e Rod Stewart avrebbero potuto formare un gruppo

Domani esce il nuovo numero di Classic Rock! Ed ecco come tre delle personalità più…

4 giorni ago

This website uses cookies.