Mio padre era un sassofonista e fece di tutto affinché imparassi a suonare uno strumento: a cinque anni, mi faceva già ondeggiare la manina solfeggiando semibrevi, minime e semiminime di Pasquale Bona. Spesso mi portava con sé quando andava in giro a suonare sui balli a palchetto o alle feste dei coscritti. Repertorio? Dalla musica da ballo “classica” (valzer, tanghi, mazurke, paso doble), alle canzonette dei primi festival di Sanremo, allo swing, al boogie-woogie. Diciamo che in casa ho sempre annusato una miscela d’aria e note.
Lui voleva che imparassi la fisarmonica, ma a me non piaceva, forse perché il fisarmonicista del gruppo era sempre quello più anziano, mentre io ero profondamente attratto dalla figura del chitarrista/cantante, giovane, aitante. Insomma, quello al quale le ragazze lanciavano sguardi di ammirazione.
Ho imbracciato la chitarra in un “complesso” a 15 anni, insieme ad altri coetanei. Era il 1963, suonavamo nelle sale da ballo i pezzi dei cantanti che a quei tempi consideravamo di “avanguardia”: Celentano, Ricky Gianco, Peppino di Capri, Elvis Presley. Ci chiamavamo gli Scoiattoli. Ben presto irruppe sulla scena mondiale il fenomeno innescato dai Beatles e noi trasformammo il nostro repertorio con le versioni italiane delle loro hit, ma anche di quelle dei Rolling Stones e degli altri gruppi del Mersey Beat. Per chi volesse approfondire, è stato pubblicato un mio libro sull’argomento: La mia chitarra suona il Rock (Ed. Araba Fenice, 2012). Nel 1968 gli Scoiattoli si sciolsero e io decisi che avrei continuato suonando il basso, che diventò il mio strumento definitivo. Ero affascinato dal suono caldo e profondo che inseguiva il tum-tum della cassa, a volte assecondandolo, a volte sfidandolo.
Terminata l’esperienza degli Scoiattoli, rilevai dal mio ex bassista il Gibson EB0 “diavoletto” color cherry (parente povero di quello di Jack Bruce dei Cream) e nel 1969 mi unii a un gruppo astigiano di r&b, i Sound & Music, in cui militavano due dei miei futuri compagni nella Locanda delle Fate: Giorgio Gardino e Oscar Mazzoglio, il primo alla batteria e il secondo, di norma tastierista, stranamente alla chitarra. Il fenomeno del r&b stava però ormai cedendo il passo (per fortuna, dico io – ho sempre trovato quel genere astronomicamente distante dai nostri cromosomi latini) a un rock raffinato, che non disdegnava di tanto in tanto di accostarsi alla musica classica.
Presi a innamorarmi di gruppi come Colosseum, Led Zeppelin, Jethro Tull, Deep Purple, ELP, ma la folgorazione sulla via di Damasco avvenne nel 1970 quando per la prima volta ascoltai IN THE COURT... del Re Cremisi: musica immaginifica, vinili da trapassare da parte a parte con la puntina del giradischi. Giorgio Gardino condivideva i miei stessi gusti, quindi decidemmo di sciogliere i Sound & Music per formare una nuova band che abbracciasse la new wave. Nacque così la Locanda delle Fate. Era l’inizio del 1971. Ci tirammo dentro anche Oscar, comprammo un Hammond B3 di cui lui diventò subito un virtuoso e iniziammo la nuova avventura. Intanto, si stava diffondendo la musica dei mostri sacri, Genesis, Yes, Gentle Giant, e noi giù a capofitto a farne le cover e a portare quella musica nelle sale da ballo, spesso facendone la versione italiana. Cominciammo però ben presto a comporre ed eseguire musica nostra, specialmente dopo l’ingresso in formazione di Michele Conta al piano ed Ezio Vevey alla chitarra, entrambi geniali compositori musicali.
A dire il vero, noi cercavamo di andare per la nostra strada. Eravamo tutti intrisi del fenomeno musicale e culturale dei Settanta, non ci eravamo tappati le orecchie, ma eravamo concentrati sulle cose che a noi venivano di getto in modo naturale. Ed erano fiumi di idee. In quelle sere passate in cantina a provare le idee dell’uno o dell’altro, eravamo tutti sintonizzati sulla stessa frequenza d’onda. Le emozioni di uno diventavano le emozioni di tutti, e continuavamo a provare e riprovare lo stesso passaggio fino a notte fonda: magia vera che ti entrava dentro e ti gratificava più di uno spinello.
Oggi, parlando in linea generale, mi sembra che molto venga fatto a tavolino, mettendoci più testa ma meno cuore. La differenza più evidente è che la “nostra” musica, ciò che adesso chiamano progressive, era di massa, ripresa e diffusa dai mass media. Adesso sarebbe fantascienza. Il genere è ritornato a essere underground come agli albori, roba da farci un presidio Slow Food.
Sono nato a Roma da madre romana e padre piemontese, ho vissuto più di vent’anni a Porto Ercole, frazione di Monte Argentario in Toscana, dove possedevo un ristorante; oggi vivo di nuovo in Piemonte e ho viaggiato molto... fisicamente e con la musica. Posso dire di essere davvero cittadino del mondo. Sono arrivato per caso alla Locanda e mi sono trovato a casa. Sono entrato come “voce” nel 1976 e abbiamo sudato parecchio per incidere FORSE LE LUCCIOLE: più che un disco, è un viaggio all’interno dell’uomo che si interroga durante le diverse stagioni della propria vita, una ricerca che va al di là della narrazione come cronaca o delle progressioni armoniche, bensì, entrando nei particolari, descrive gli stati d’animo che incontra, in una lucida necessità di risposte, cercando di limitare la retorica dell’intuizione.
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