Il rock attraverso le riviste italiane | Ciao 2001

di Riccardo Bertoncelli

Ci piace sempre dire che il rock in Italia è arrivato effettivamente negli anni Settanta, e se non proprio “arrivato” almeno si è radicato, a differenza di molti altri Paesi europei, Francia Germania Olanda Svizzera, già da tempo investiti da quell’onda. Qui da noi gli stessi Beatles e Stones giunsero con eco attutita, e certi nomi oggi considerati imprescindibili (faccio un nome su tutti: Velvet Underground) negli anni Sessanta erano degli sconosciutissimi sottozero. Il fatto è che mancava una rete solida di concerti, la RAI monopolista si limitava ad allungare avari bocconcini radiofonici (Bandiera gialla, Count Down, le prime serie di Per voi giovani) e le riviste musicali non facevano ricerca né scoperta, limitandosi a infilare tutto/tutti nello stesso calderone giovanile: Rita Pavone e gli Animals, Antoine e i Who, la New Vaudeville Band, Gianni Morandi e Bob Dylan. Tre erano quelle riviste: «Ciao amici!», credo la più longeva, «Giovani» e «Big». A un certo punto sul finire dei Sessanta «Ciao amici!» e «Big» si fusero e nacque «Ciao 2001», che per i polemici talebani come me spostò di poco le cose; c’erano sì meno Cantagiro e più canzone d’autore, qualche spunto rock di tendenza e qualcosa in diretta da Londra, però mancava tutto il coté underground, mancavano i profeti, i diversi, i provocatori, che quelli come me cercavano a tutti i costi.

Anche per quello, con sprezzo del pericolo e valoroso autolesionismo, fondai nel 1969 una rivistina ciclostilata che non chiamo fanzine perché neppure il termine era ancora nato in quei giorni. Si chiamava «Blues Anytime», “organo del John Mayall Fan Club of Italy”, che poi con il contributo di Paolo Carù diventò «Pop Messenger Service» e infine, tornato io one man band, si trasformò in «Freak», “mensile pop per lucide menti aperte”. Lì parlavo della musica che mi piaceva, il poco che riuscivo ad arraffare su disco con le mie magre finanze e con gli ascolti radiofonici (fondamentale Count Down, ma valeva anche Studio Pop, sulle onde della Radio Svizzera Italiana). Le riviste erano di poco aiuto; quelle straniere, da «Rolling Stone» al «Melody Maker» alla splendida, dimenticatissima «Jazz&Pop», circolavano ventimila leghe sotto i miei mari, e quelle italiane non “di settore” dedicavano al nuovo rock poco davvero – mi piace però citare «Ubu», un foglione molto d’epoca curato da Franco Quadri, che su uno dei suoi pochi numeri dedicò largo spazio a Bob Dylan…

…continua sul terzo numero di CIAO 2001, già disponibile online e in edicola!

Mila Spada

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