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Jimi Hendrix: l’ultimo giorno del Dio della chitarra

Chiama quella cazzo di ambulanza, Monika!”. Quando arrivò al Samarkand, Eric Burdon lo trovò già stecchito. Jimi Hendrix, il dio della chitarra, non c’era più…

Il 18 settembre del 1970, ci lasciava Jimi Hendrix.

Morirò, sì, morirò!
No, non morirà proprio NESSUNO!!!

Giovedì 17 fu intensissimo: al mattino, Jimi fece un salto al proprio hotel, pranzò in camera e chiamò Mitch Mitchell, fissando una jam serale con Sly Stone. Al pomeriggio, seguì Monika al mercatino dell’antiquariato di Kensington Road, a due passi dal Samarkand Hotel, a comprar vestimenti leggeri da sfoggiare in Usa. E qui incontrò tutti, ma proprio tutti: la vecchia fiamma Kathy Etchingam, che invitò invano all’hotel; l’altra vecchia fiamma e sua primissima scopritrice Linda Keith, cui regalò una Stratocaster nella cui custodia lei trovò le lettere scrittegli quattro anni prima; Devon e Stella, che invitarono i due alla festa del produttore Pete Kameron, uno dei finanziatori della Track Records per cui Jimi aveva esordito.

Tornando al Samarkand Hotel, i due s’imbatterono in Philip Harvey, figlio di un lord inglese. A casa sua per un tè, condito da hashish e vino? Ma certo: Jimi gradiva, anzi, prese a fare il porco con le amiche di Harvey. Dopo un’accesa discussione con Monika in cortile, mentre Harvey tremava temendo che qualcuno chiamasse la polizia, Jimi tornò con lei al Samarkand. Bagno, scrittura di The Story of Life, e via da Kameron.
Ancora arrabbiata con lui, Monika non entrò. In mezz’oretta Jimi riuscì a scolarsi svariati liquori, prendere un’anfa gentilmente offerta da Devon, sniffare del fortissimo LSD. Tutto mentre Monika scampanellava dicendo di essere venuta a riprenderselo e veniva mandata a quel paese da Stella Douglas.

Alle tre della mattina di venerdì 18, Monika e Jimi rientrarono al Samarkand. Nessuno dei due riusciva a dormire. Tra le quattro e le sei, lei prese un Vesparax, un potente sonnifero tedesco, la cui dose normale era mezza pastiglia, e si addormentò d’un sonno profondo. Forse alle sette, con tutto quel bendidio in corpo, anche Jimi decise di dormire. Sonniferi tedeschi? Mah. Meglio prenderne un bel po’ dalla confezione da 50 di Monika. Nove, per l’esattezza. 18 volte la dose normale. Con tutto quel bendidio che già aveva preso. Verso le dieci, Monika si svegliò. Niente più sigarette, accidenti. Uscì per comprarle. Un quarto d’ora dopo, al suo ritorno, si accorse che Jimi dormiva un po’ troppo profondamente.

Un malore, certo, un malore. E tutta quella droga in appartamento? Si mise a cercare Alvenia al telefono. Quando la trovò, al Russell Hotel, rispose Eric Burdon: “Jimi sta male. Non riesco a svegliarlo”, disse lei. E lui: “Chiama l’ambulanza, Monika, chiama l’ambulanza”.
Ma Monika temeva che Jimi s’incazzasse. Così le urla di Burdon svegliarono Alvenia: “Chiama quella cazzo di ambulanza!”.
Alvenia se la fece passare e le ripeté il concetto più dolcemente, quindi riattaccò per vestirsi. Quando ritelefonò, Monika non aveva ancora chiamato nessuno. Eric riprese la cornetta e si sgolò: “Chiama quella cazzo di ambulanza, Monika! Chiama quella cazzo di ambulanza!”. Quindi si precipitò al Samarkand, che distava una ventina di minuti in auto. Finalmente, alle 11.18, Monika chiamava l’ambulanza.
Quando Eric arrivò, non c’era ancora nessuno: fece sparire droghe e affini e trovò il testo di The Story of Life, che, chissà perché, lo convinse che Jimi si era suicidato. Quindi telò con Monika.
Alle 11.27 arrivò l’ambulanza: medici e infermieri trovarono Jimi da solo, il volto ricoperto di vomito, freddo. Gli cercarono il polso. Invano. Corsero comunque al St Mary Abbots Hospital. Qui, alle 12, Gerry Stickells ne riconobbe il cadavere. Arrivò anche Alvenia, per conto suo. Trovò Monika, nel parcheggio, in lacrime, che ripeteva: “No, no”.
Un’infermiera le disse che Hendrix era morto: “Non ti credo”, le rispose.
In qualche modo, se lo fece mostrare. Era in una stanza bianca, silenziosa, con poca luce, disteso. “Sembra così bello”, riuscì solo a pensare.

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