BRUCE SPRINGSTEEN CIRCO MASSIMO, ROMA RECENSIONE

Nonostante molti dei 60.000, o giù di lì, presenti in un sabato di Luglio nella cornice di uno dei posti più belli al mondo, l’abbiano già visto decine di volte, un concerto di Bruce Springsteen sorprende come la prima volta. Qui, in una delle tappe del ‘River Tour’, quel ragazzo di 67 anni e i suoi compagni di viaggio, ci fa tornare ai tempi in cui, ragazzini, ci entusiasmavamo per ogni cosa e quei suoni che uscivano potenti dagli amplificatori sembravano usciti dai nostri sogni più belli. Potenza del rock’n’roll e potenza di un uomo che, in più di 40 anni di carrier,a non si è mai risparmiato. Il concerto al Circo Massimo è durato 4 ore (4 ore vere!) e il nostro amico del Jersey non si è concesso neanche una pausa, a partire da quella ‘New York City Serenade’ abbellita dall’Orchestra Roma Sinfonietta e da un preludio morriconiano, che già ci aveva fatto presagire strani movimenti del cuore. 240 minuti dopo, il capolinea è stata una ‘Thunder Road’ per sola voce e chitarra dove, lo stesso cuore, stava ormai volando sopra la Città Eterna lasciandoci in balia di quelle storie in cui Roy Orbison cantava per gli innamorati soli (e per noi che soli non eravamo più).

In mezzo, a cullarci le orecchie e tutti gli altri sensi, la parte più straordinaria di ‘The River’ (ma ve lo ricordavate quanto è bella ‘Jackson Cage’?) compresa quella ballata del titolo che inizia come una storia di una qualunque periferia del mondo e finisce come una tragedia shakesperiana. E poi, il rock’n’roll delle origini, con Eddie Cochran, Mitch Ryder, gli Isley Brothers quasi a spiegare le radici di tutto. Forte è la commozione quando viene ricordato l’orrore di Nizza del giorno precedente, prima che parta una ‘Land Of Hope And Dreams’ immensa. E qualche lacrima scende anche quando appaiono sugli schermi i volti degli amici che non ci sono più, Clarence e Denny. Forse proprio qui sta la forza di Bruce e della sua E Street Band, nel fatto che suonano come fossero amici da sempre. E lo sono veramente, anche quelli che all’inizio non c’erano (il nipote di Big Man che suona il sassofono come lo faceva lui).

Non dimentichiamoci, poi, che anche a livello di tecnica, la band dimostra di essere sempre LA band, non per quello o per quanto suona, ma per COME lo suona. Garry Tallent quasi nemmeno si vede, ma il suo basso (oggi gustosamente pompato da un impianto che, in ambito rock, ha rasentato la perfezione assoluta, tanto da farci intendere ogni singola voce nei cori) è una chiave di volta fondamentale, mai stanco di cercare note che non facciano da mero e semplice accompagnamento e ripercorrendo la storia del rock in quelle quatro corde, che passano dal r’n’r al soul al jazz (per non parlare delle tante parti soliste “nascoste”) nella ritimica di un solo pezzo. E Nils Lofgren, proprio quando pensi che oggi sia un po’ troppo in secondo piano, si permette un infinito assolo che mescola virtuosismo e melodia durante una ‘Because The Night’ che diventa quasi hard rock. Per farci capire quanto siano affiatati, ci regalano anche siparietti comici dove si “permettono” di prendere in giro Re Elvis e dove concedono il sogno di una vita a pochi fortunati del pubblico, invitandoli sul palco (qualcuno anche a suonare!). Quindi scusate se non abbiamo parlato dei pur bravi Treves Blues Band e Counting Crows, ma, quando entra in scena il Boss, non ce n’è per nessuno. Magnifici! (Testo di Renato Massaccesi. Foto di Danilo D’Auria)

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