Ne parliamo con Patrizio Fariselli, che sul piatto aggiunge un album tutto nuovo.
Patrizio Fariselli rimane il portavoce principale di quella straordinaria esperienza che furono gli Area. Era allora opportuno tornare a scambiare due chiacchiere con lui, approfittando della recente e duplice pubblicazione: il suo settimo album solista 100 GHOSTS e la ristampa dell’ultimo disco degli Area con Demetrio Stratos, che festeggia i suoi splendidi quarant’anni.
Lo escludo completamente, anche perché la sua scelta mistica sarebbe arrivata quasi tre anni dopo, e precisamente nel 1980. All’epoca, anche se non suonava più con noi, Paolo stava seguendo le nostre registrazioni su TIC & TAC. Se ne andò, quindi, solo per un bisogno di staccarsi dalla vita che faceva, ma non ci fu alcun attrito.
L’attenzione verso il suono elettronico era diventata più importante per noi, assieme all’improvvisazione e allo sviluppo del jazz. Avremmo facilmente trovato un altro chitarrista se lo avessimo voluto, ma giunti a quel punto ci interessava lavorare in una nuova dimensione. Io e Demetrio, poi, eravamo entrambi tastieristi e ci si stava aprendo un mondo. Fin lì, infatti, lui aveva usato un organo Hammond e io un Rhodes e un piccolo synth, ma a partire da quel disco cominciai a utilizzare dei sintetizzatori polifonici e, per la prima volta, uno strumento chiamato MCS70, un prototipo analogico già provvisto di un set di memoria che lo proiettava nel futuro e che conservo ancora. Quindi, il lavoro sulle tastiere fu particolarmente curato, grazie anche all’aiuto di Allan Goldberg, l’ingegnere del suono che partecipò attivamente alla costruzione di quel mondo musicale.
La Cramps era stata il nostro nido naturale. Anzi, fu inventata da Gianni Sassi proprio per pubblicare il nostro primo album. Per 5 anni lavorammo in grande sinergia, ma poi sentimmo l’esigenza di uscire dal ghetto dorato in cui eravamo, sondare un mercato più ampio e magari uscire dall’Italia. Cosa che poi non ci riuscì, a parte piccoli exploit in Francia e a Cuba, a causa dell’ostracismo da parte del mondo angloamericano nei nostri confronti, soprattutto per motivi politici.
Gianni era stato molto importante: non solo per lo sviluppo dei primi cinque dischi, sei se includiamo anche il live, ma anche a livello di costruzione dell’immagine. Però ormai sentivamo di dover camminare con altre gambe, innescare un’altra marcia e allontanarci da un pensiero che ci stava un po’ stretto.
Come te! Ma sai, orecchie poco avvezze a soppesare i suoni possono cascare in piccole trappole: in quel periodo, la direzione privilegiata della modernità veniva identificata nella destrutturazione e nella dissonanza, qualcosa che noi avevamo già praticato abbondantemente. Siccome ci fu un ridimensionamento di questi elementi, sembrava che avessimo preso la strada più facile, ma invece questo è un disco ricchissimo e pieno di componenti. E con la rimasterizzazione, me lo sono goduto ancora di più: non è invecchiato quasi per niente, il che vale anche per i primi album. ARBEIT MACHT FREI, per esempio, è uscito nel 1973, ma trovo che il 90% delle sue soluzioni siano ancora vive.
L’intervista completa, a cura di Mario Giammetti, è su Classic Rock n.73, disponibile qui.
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