Come i R.E.M. mossero i loro primi passi

r.e.m.

Nel 1981, i R.E.M. avviavano concretamente quel percorso di ascesa che li avrebbe portati a essere una delle band più brillanti e acclamate del rock.

Per il mondo del rock, il 1982 fu un anno di transizione. Ricco, nessun dubbio al proposito, ma non contraddistinto dal predominio di una tendenza in particolare.

Gettate le basi all’inizio del decennio, hardcore punk e New Wave Of British Heavy Metal alzavano prepotentemente la testa, ma le varie diramazioni del post-punk rimanevano sugli scudi e, al contempo, nell’underground cominciava ad affacciarsi il fenomeno del recupero (più o meno creativo) del garage e della psichedelia dei Sixties.

Fu proprio sul finire di quel dinamicissimo 1982 che i media internazionali votati alla musica scoprirono i R.E.M. grazie a CHRONIC TOWN, un mini-Lp edito dalla I.R.S. di Miles Copeland (fratello di Stewart, dei Police), un’etichetta indipendente – ma con ottimi agganci nel giro major – che in quei giorni andava (efficacemente) a caccia delle migliori promesse.

Quanti erano attratti dal tanto nuovo che emergeva dalle cantine appresero così dell’esistenza di questo gruppo originario della Georgia che era attivo dalla primavera del 1980 e in precedenza aveva pubblicato – già con accanto Mitch Easter, preziosa presenza in console; vi sarebbe rimasto a lungo – un acerbo ma intrigante 45 giri con la label fantasma HibTone, Radio Free Europe / Sitting Still, che nella tiratura iniziale (di mille copie, pare) cambia oggi proprietario per cifre attorno ai 250 dollari.

Chissà come, qualche esemplare del dischetto era arrivato perfino in Italia, con relativa inclusione dell’ensemble in un articolo di «Rockerilla» dell’aprile 1982 dedicato a ipotetici futuri protagonisti della scena americana.

ATTENZIONI (REM 1983)

Cinque brani per venti minuti complessivi, CHRONIC TOWN fu classificato come un curioso, seducente ibrido, figlio di certo folk-rock della metà dei 60 così come della new wave più aggraziata, ipnotica e malinconica. Atmosfere brumose e armonie persuasive, ritmiche insistenti e limpide chitarre jingle-jangle, testi poco comprensibili cantati con indole filo-ieratica e sensazioni di freschezza che surclassano quelle pur avvertibili di seriosità; e, in copertina, per confondere ulteriormente le carte strizzando l’occhio al gothic, la foto virata in azzurro di un gargoyle.

Sulla carta improbabile ma nella sostanza azzeccatissimo, l’intreccio sospeso tra ombre e luci ideato dal cantante Michael Stipe, dal chitarrista Peter Buck, dal bassista Mike Mills e dal batterista Bill Berry – un tutt’uno fino al 1997 della riorganizzazione in tre dovuta all’uscita di Berry – indusse la stampa specializzata a coniare la definizione “i Byrds degli anni 80”; un’influenza che i ragazzi, nonostante i tintinnanti arpeggi di Rickenbacker, smentivano in modo deciso, dichiarando di avere ascoltato seriamente RogerMcGuinn e compagni solo sulla scia dei continui paragoni. Ebbe a dire invece un meravigliato Peter Buck:

Nessuno ci accosta ai Velvet Underground che probabilmente sono l’unica band amata da tutti noi. Penso che parecchie delle nostre cose suonino alla Velvet; ad esempio, la mia chitarra, ronzante e melodica allo stesso tempo.

L'articolo completo, firmato Federico Guglielmi, è disponibile sul nuovo numero di Classic Rock, in edicola e sul nostro store online.
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