Riccardo Fogli: la nostra intervista esclusiva

riccardo fogli

Praticamente, Riccardo Fogli vive in paradiso. Non tanto e non solo perché abita in un ex convento del Cinquecento, circondato da campi e boschi, ma per l’allegria, il modo sempre positivo di vedere le cose, l’atteggiamento aperto e amichevole che non lo abbandona mai, la capacità di godere di tutto quello che vede, che ha, che gli capita.

Jorge Luis Borges fa dire da Paracelso a un giovane scontento, che si ostina a lamentarsi e puntualizza che tutto è mortale: “Credi che la caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?”. Ecco, Fogli non commette un tale errore. Non l’ha mai commesso. Per questo ha potuto attraversare col sorriso e addirittura ricavandone lezioni importanti un’infanzia povera e complicata, e una crisi professionale lunga e apparentemente senza vie d’uscita.

Da ragazzino, lavorare gli sembrava una conquista. Da adulto, stare fermo gli si è rivelata un’opportunità per studiare, leggere, imparare tutto quello che non aveva potuto imparare prima. Tanto che ora ogni tanto gli scappano citazioni di scrittori che ha amato e gli sono rimaste impresse. E dice con orgoglio che a trent’anni ha preso il diploma di ragioniere con le scuole serali, per la gioia della sua mamma che non aveva avuto la possibilità economica di farlo studiare.

Forse è troppo? Fogli è troppo grato alla sorte, troppo carino quando parla dei colleghi, troppo affettuoso anche con me, una sconosciuta-conosciuta, nel senso che sapeva chi fossi ma non ci eravamo mai nemmeno parlati. Mi dice che mi ammira e mi dedicherebbe il più bel cinghiale della Maremma... in senso simbolico, ovviamente, perché mai ucciderebbe un animale. Invece lui è proprio così, e per fortuna ce ne sono davvero, persone così, con un carattere gioioso, con la fortuna di sapersi scuotere i problemi di dosso invece che annegarci. In parte è una questione chimica, ci si nasce. In parte, questa serenità costante, questa apertura fiduciosa agli altri e al mondo, la si coltiva. Anche per egoismo, perché funziona. Eccome se funziona. Riccardo Fogli, 73 anni il 21 ottobre 2020, ne è la prova.

Buongiorno Riccardo, sai da dove cominciamo? Dai tuoi check. Perché mi hanno detto che sono pazzeschi. Soprattutto quelli dei concerti all’aperto, nelle piazze. Ti dico la frase precisa che ho sentito in un paese dove passo sempre e tu hai suonato varie volte: “Ahò, c’è più gente a vede’ Riccardo Fogli che prova che ai concerti dei colleghi suoi”.

Ah... ma davvero ha detto così? È vero. Io al pomeriggio arrivo, mi metto dietro le casse, non mi faccio vedere e comincio a cantare. La gente mi cerca, si passa parola, si forma un bel gruppone, allora alla fine esco fuori ma mi scuso: “Ragazzi, non sono io, sono il fratello di Riccardo, lui ancora non c’è”.

Andiamo indietro nel tempo. Quando eri piccolo. I nonni erano contadini, tu adesso sei tornato alla campagna.

Anche i miei genitori erano contadini, lo erano nel cuore. Quando erano ormai avanti negli anni, papà rivide un suo compagno di classe che gli affidò un pezzetto di terra, così tutti e due, mamma e papà, andavano la domenica a zappettare questo piccolo orto. Papà era nato in un paesino vicino Pontedera, e prima della guerra aveva fatto il garzone da un fabbro, per imparare il mestiere. Il fabbro aveva una figlia, papà se ne innamorò, si sposarono e nacqui io.

Ma prima ci fu la guerra e, tornato dalla guerra, dopo aver fatto mille lavoretti, papà realizzò il suo sogno: diventare metalmeccanico. Andò così. A Pontedera c’era questo ingegnere che aveva scoperto che dappertutto era pieno di arrotine e di motori di avviamento per aeroplani, abbandonati. Da lì ebbe l’idea di fabbricare questa brutta-bellissima Vespa, che funzionava proprio con quella roba. L’ingegnere si chiamava Piaggio e papà andò a lavorare alla Piaggio.

Dove lavori anche tu, per un periodo.

Papà pregava perché mi prendessero. Nei momenti di tenera confidenza, quando eravamo a tavola a cena, con la minestra in brodo brodosa e caldosa... papà diceva, come proprio una preghiera: “Signore, fa’ che il mi figliolo diventi metalmeccanico come me”. Avevo 12 anni quando lui mandò la domanda d’assunzione, poi a 14 anni, appena finita la 3a di avviamento industriale, vengo chiamato e mi mettono a fare il fattorino, perché metalmeccanici si poteva essere solo a 18 anni. Così io gironzolavo in bicicletta portando la posta all’interno della fabbrica, ma dopo due settimane uscì la legge che imponeva per lavorare il limite minimo di 15 anni se no niente libretto di lavoro.

Ero un bravo ragazzo, sveglio, educato, avevo fatto il chierichetto e sapevo comportarmi, capivo tutto subito e tutti mi amavano... i pianti! Riccardino, Riccardino, dobbiamo fare a meno di te! Io piangevo, loro piangevano. La mia mammina allora mi trovò un lavoro da elettricista. Riparavo i ferri da stiro, smontavo i televisori a valvole, montavo sui tetti dei palazzi di dieci piani per piazzare le antenne. Ero contento perché imparavo un sacco di cose, ma a 15 anni e pochi giorni eccomi di nuovo alla Piaggio, ed ero più contento ancora. Me ne andavo in giro fischiettando e cantando, e allora uno che lavorava lì e mi aveva sentito mi ha detto: ‘Riccardino, vien qua: se ti piace cantare devi andare a scuola, utilizzare meglio la voce’. Mi porta dal maestro Santarnecchi, e comincio a prendere lezioni tutte le sere.

Solfeggio, teoria musicale...?

Macché. Scrivilo, scrivilo, perché sto spiegando l’abc di come si impara: io mi facevo insegnare le canzoni che mi piacevano. In classifica c’era Abbronzatissima? Io imparavo Abbronzatissima, in varie tonalità. Dopo che avevo imparato bene dieci canzoni, il maestro mi disse: “Se i tuoi genitori son d’accordo, ti passo a prendere e si suona in una balera. Ti do 500 lire”. Le 500 lire d’argento! Mi garbava proprio. Ma il maestro ancora non era contento, e mi impose di imparare uno strumento. Scelsi di imparare il basso elettrico, che era uno strumento poco conosciuto, nuovo. In Italia c’era il basso, il basso elettrico non lo suonava quasi nessuno. Diventai così cantante, bassista... e lavoratore alla Piaggio. Si cantavano le canzoni di Neil Sedaka, Paul Anka, Gene Pitney. Poi arrivarono i Beatles e lì cambiò tutto.

 

Se ti è piaciuto questo estratto, leggi l'intervista completa sul nuovo numero di Vinile, disponibile in tutte le edicole e sul nostro store online
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

You May Also Like