I primi anni di Garbo | VINILE N.39

garbo vinile 39
Garbo nel 1980, poco prima di esordire.
Garbo ci parla del suo esordio, del suo approccio alla musica e del suo inusuale modo di viverla. Leggi un estratto dal prossimo numero di VINILE qui!

Renato Abate in arte Garbo, classe 1958, ha alle spalle più di quarant’anni di carriera discografica vissuti in modo ben poco convenzionale, all’insegna di una coerenza dalla quale sono spesso derivate scelte interessanti e coraggiose tanto sul piano artistico quanto sotto il profilo commerciale. Il minimo che potessimo fare era chiedergli di raccontarci nel dettaglio la sua vicenda davvero unica.

Il giovane Renato Abate e la musica: com’è scoccata la scintilla?

Mio padre suonava la fisarmonica e a tredici anni mi regalò una chitarra classica. Niente di che, il classico strumento per imparare, con le corde di nylon... peccato che non avessi alcun interesse per la musica. Un giorno, forse per dispetto ma direi senza una reale ragione, tagliai tutte le corde con un coltello, ricordo ancora il rumore che fecero. Ovviamente fui punito.

Be', quindi non fu esattamente una scintilla…

No, affatto, ma l’ho voluto raccontare proprio perché, come primo contatto, è stato parecchio singolare. L’attrazione 1° è scattata dopo, attorno. ai quindici/sedici anni, grazie alla radio dei miei genitori, inserita in uno di quei mobiletti di legno nei quali c'era anche il giradischi. Poi la sera, a letto, con la radiolina — quella che si usava per le partite di calcio — e l'auricolare seguivo SupersonicDischi a Mach 2, la trasmissione della Rai. Scoprii così Lou Reed e David Bowie, artisti dei quali non si sentiva molto parlare: non avevo idea di chi fossero, ma il loro mondo musicale mi affascinava profondamente.

Per saperne qualcosa, nella prima metà dei Settanta, bisognava leggere riviste specializzate come «Ciao 2001» o «Nuovo Sound», e poi «Muzalo» e «Gong».

O anche avere, come me, un fratello con qualche anno di più che portava a casa i dischi “giusti”. Grazie a lui ho avuto modo di approfondire le mie conoscenze e questo mi ha spinto a voler fare qualcosa di analogo, ma con la mia sensibilità. Ho buttato giù qualche accordo e ho provato a metterci sopra le prime frasi, che fin dall'inizio erano in italiano perché non parlavo inglese. In generale, le canzoni in italiano non mi piacevano, non mi suggerivano emozioni, non mi facevano volare, viaggiare con la mente. Raccontavano tutte “storie” e io non volevo essere l'ennesimo cantastorie, con la musica volevo creare immagini, fotografie, cinema. Così sono nati i primi provini, poi rielaborati per il mio esordio del 1981.

Un attimo, stiamo saltando qualcosa. Che mi dici della tua gavetta?

Guarda, ero totalmente all’oscuro di cosa fosse l'industria discografica, di cosa significasse avere un contratto o fare un disco... vivevo in provincia e non avevo alcun contatto con gente “del giro”. Quando cominciai a scrivere brani, alcuni compagni di scuola divennero i miei musicisti, e fu naturale pensare assieme a loro di registrare qualcosa. All'epoca in Lombardia era normale fare lavoretti estivi, di solito per pagarsi le vacanze; invece io, dopo aver racimolato qualche soldo, andavo in una picco la sala di registrazione. A Lecco ce n’era una anche carina nello scantinato di un negozio di dischi sotto i portici, Battistini, e un sabato pomeriggio incontrai lì Giuseppe Banfi detto Baffo, il tastierista dei Biglietto per l'Inferno, amico dei figli del proprietario. Fu lui a occuparsi delle registrazioni dei miei provini, una manciata di brani appena abbozzati, e alla fine mi chiese se poteva avere una copia della mia cassettina per “propormi a qualcuno”. Gli risposi di sì anche se non avevo cognizione di cosa volesse dire: ero ingenuo, i ventenni dei tardi Settanta non erano come i ventenni di oggi che sanno di poter bussare alla porta di una major assieme a due avvocati. Un mesetto dopo mi telefonò dicendomi che un discografico interessato alla mia musica mi avrebbe chiamato presto per fissare un appuntamento.

Insomma, sei diventato un professionista della musica senza nemmeno sbatterti un po'.

Già. Ricevetti la fatidica telefonata e venni convocato a Milano, a via Meda, da Giampiero Scussel, che scoprii essere il direttore artistico della Fonit Cetra. Dopo pochi minuti in sala d'aspetto, da una porta si affacciò questo signore sulla quarantina, che logicamente per me era “un vecchio”, come Gianni Morandi in tv. Mi invitò a entrare nella sua stanza, con una scrivania enorme che sotto il vetro aveva una pelle di elefante, e mentresi faceva un caffè prese il mio demo — non conoscevo questa parola, per me era solo una cassettina — e lo lanciò sulla scrivania dicendo “questo è tuo?”. Avendo interpretato male la gestualità mi preoccupai, pensai di aver fatto qualcosa di sbagliato... ma al mio “sì” lui spiegò di aver trovato le mie cose interessanti e di aver voluto vedere com’ero fatto, che immagine avessi. Rimase evidentemente convinto, perché aggiunse che a breve sarebbe diventato direttore artistico della EMI e che gli sarebbe piaciuto portarmi lì con lui, come giovane talento da lanciare sul mercato. Benché fossi a digiuno di tutte le implicazioni, ringraziai e accettai.

Che tipo di contratto ti fu offerto?

Ah, uno standard, di quelli “selvaggi”: sotto il profilo legale inattaccabili, ma non granché vantaggiosi per gli artisti. Ci ho rimesso un sacco di soldi. Però, ecco, ai soldi non pensavo affatto, ero felice di potermi esprimere attraverso la mia musica. Comunque, non mi è stato rubato nulla: in quel periodo ho imparato a leggere il pentagramma e ho superato l'esame di compositore e autore in SIAE, cosa che mi ha permesso di firmare ufficialmente le mie canzoni...

...Questo e molto altro sul prossimo numero di Vinile n.39! Da questo venerdì in edicola e online.

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